Bruno Fornara da Cannes: un critico d'eccezione recensisce Cosmopolis

Da Silviapare
Il mio grande maestro di cinema, Bruno Fornara (che compare anche qui, in fondo), mi ha autorizzata a pubblicare la sua recensione di Cosmopolis, scritta di getto subito dopo aver visto la prima a Cannes. Una vera chicca che vi offro con orgoglio (N.B.: il massimo dei voti è 5).
“Cosmopolis” di David CronenbergIl mondo del capitalismo finanziario sta dentro una limousine. È lì che praticamente vive Eric Packer (Robert Pattinson). Non ne esce che in rare occasioni. È lì che riceve ospiti e incontra collaboratori, lì viene a visitarlo ogni giorno un medico: che gli trova, con una esplorazione manuale, la prostata asimmetrica. L’asimmetria spaventa Packer. Tutto gli deve apparire simmetrico, tutto deve o dovrebbe funzionare come vogliono le regole del capitale. Solo che nulla fuori dalla limo funziona più come ci si augurerebbe, il traffico è bloccato in una New York dominata dalla paura mentre il presidente arriva in una Manhattan esagitata e pericolosa, girano dimostranti arrabbiati che ridipingono la limo e urlano slogan folli secondo i quali i topi sono adesso l’unità di misura di tutto, anche dell’economia. Packer, dentro la macchina nella città impazzita, vuole andare dall’altra parte di New York dal suo barbiere. Qualcuno intanto lo vuole far fuori. “Cosmopolis” è un Cronenberg di quelli duri, crudi, rigidi. È impostato secondo una norma ferrea: le scene sono (quasi) tutte dialogate. Packer parla di volta in volta con tanti personaggi, di finanza, d’amore, sesso (lo fa anche), vita, soldi e quadri. I riferimenti ai quadri sono essenziali. Sui titoli di testa viene a comporsi una specie di lungo, caotico, macchiato Pollock orizzontale, poi nel film c’è invece l’opposta presenza di più quadri di Rothko, metafisici, abissali, vuoti e inattaccabili. Sono i due poli della situazione: un caos sociale lineare in cui scorrono spinte in tutte le direzioni e il rimpianto per non riuscire più a essere vuoti e liberi. Nel suo appartamento, dice Packer, ha due ascensori: uno procede a velocità ridotta per riuscire a gustare la musica di Satie; nell’altro, veloce, si sentono le composizioni di un rapper (che morirà nel corso del film). È perfido questo “Cosmopolis”, chiuso senza angoscia e senza uscite, come se tutti – Packer per primo – avessero ormai accettato che la fine è già avvenuta. Il cybercapitale non ha futuro. Per questo, rovesciando Marx, ”uno spettro si aggira per il mondo, quello del capitalismo”. Il capitalismo nella sua forma spettrale ha vinto portando tutto alla rovina. C’è ancora qualcuno (Mathieu Amalric!) che pensa in maniera situazionista di mettere in atto gesti inutili come tirare una torta alla crema in faccia a Packer. E c’è chi (Paul Giamatti!), nell’ultima scena e nell’ultimo, lungo dialogo, si trova in mano la pistola con la quale potrebbe uccidere Packer mentre gli rinfaccia di aver dimenticato “l’asimmetria”. Starebbe lì, nell’accettazione dell’imperfezione, delle differenze, di una alterità che sfuggisse all’uniformità del capitale, una via di salvezza. Non sembra comunque che resti il tempo per applicare questa ricetta. Cronenberg, dopo “Il pasto nudo” da Burroughs e “Crash” da Ballard, torna ad adattare un romanzo, arduo e infernale. Anche il suo film è gelido e rivelatore. Apocalittico: perché in senso biblico la parola apocalisse vale appunto rivelazione. Un film astratto, come i quadri di Pollock e di Rothko. Voto 4. P.S. In Italia il romanzo di De Lillo è stato tradotto da Silvia Pareschi, mia amica e mia allieva alla Scuola Holden.    Il trailer italiano

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