Questa settimana ero un po’ indeciso sul titolo da affrontare, avevo in mente il giapponese Là dove volano i corvi, samurai movie girato nel 1969 da Hideo Gosha con un occhio ai nostri spaghetti western, e invece, casi della vita, mi sono ritrovato a parlare di un altro film, diversissimo. Anche se un filo, seppur labile, li unisce. I miei due o tre lettori non abbiano paura, l’appuntamento con le spade e i duelli all’arma bianca sotto lo sfondo del Fujiyama sono solo rimandate, alla prossima settimana. Dio, il destino o, chissà, magari l’amico caprone dai peti di zolfo, hanno deciso che mi dovessi imbattere, mentre annoiato scartabellavo il mio hard disk, in un vecchio film in bianco e nero con Robert Taylor, Il boia (1959). Avevo intenzione di vederne solo un pezzettino, poi la visione mi ha conquistato e, tra una lasagna di zia Ivonne riscaldata al forno a microonde e una chiamata di Eugenio Ercolani, l’ho gustato fino alla fine. Stiamo parlando tra l’altro di un western girato con meraviglioso senso del ritmo e un gusto unico dell’immagine da uno dei migliori registi di sempre, quel Michael Curtiz che fece sognare i nostri nonni con il melò Casablanca (1942).
Bel tipo Curtiz o meglio Manó Kertész Kaminer, questo il suo vero nome, ungherese di origine ebree, e, come tanti registi dotati di talento, un vero e proprio bugiardo patologico. Nelle varie interviste raccontava, appunto, di essere scappato di casa per lavorare in un circo, ma questa storia mutava, di volta in volta, con elementi sempre più fantasiosi fino a farlo diventare membro della squadra di scherma ungherese ai giochi Olimpici del 1912. Tutte cose naturalmente di difficile comprovazione. Non parlava invece della sua vita sotto il nazismo e la deportazione della sorella ad Auschwitz. Che cosa fosse, comunque, la vita di questo regista (nato, diceva, il 24 dicembre 1886) negli anni precedenti alle sue opere, ben poco ci interessa, per lui e per noi parlano i suoi film. Di certo era una delle firme più prestigiose, prima del cinema austriaco degli anni 20, con kolossal come Sodoma e Gomorra e Die Sklavenkönigin, poi del cinema americano, soprattutto sotto l’etichetta Warner. Girò nella sua carriera 173 film (pur parlando malissimo inglese) passando dai generi più disparati: il western (I Comancheros, 1961, il suo ultimo lavoro per dirne uno dei tanti), il cappa e spada (Capitan Blood del 1935, con Errol Flynn fu un successo grandissimo di pubblico e critica), per poi affrontare la commedia (Non siamo angeli, 1955, con Humphrey Bogart), il dramma giovanile con Elvis Presley (La via del male del 1958) e persino l’horror (La maschera di cera del 1933 e Dottor X del 1933). Lavorò con attori di grande levatura, come William Holden, John Wayne, David Niven, Gary Cooper e Sophia Loren (quella che gli arrise meno fortuna), fino alla fine della sua carriera.
Questo Il boia arriva a fine carriera, altri cinque pellicole poi la morte nel 1962, a 75 anni. Non siamo, beninteso, davanti al suo capolavoro western ne una delle cose più notevoli della sua carriera, ma è comunque un film ricco di spunti interessanti e con una regia molto più moderna di quello che ci si potrebbe aspettare. Ricordiamo che il western arrivati alla fine degli anni cinquanta stava cambiando notevolmente, sia nei contenuti che visivamente: nuovi registi iniziano ad usare il western con toni più esplicitamente metaforici. Quindi bisogna apprezzare ancor di più quanto questo vecchio regista riesca ad adattarsi alle nuove generazioni, mantenendo il passo con i tempi. La macchina da presa compie carrellate, segue i personaggi, si posiziona in inquadrature azzardate e si fa fatica a credere, se si ha una sola infarinatura del western americano, che ci si trovi davanti ad un film in bianco e nero.
Commuovendoci tutti, duri o non duri che siamo.
Andrea Lanza