Scrivere su questa rubrica mi porta a rivedere film che non visionavo da anni e immancabilmente a scoprire quanto, nel bene o nel male, la memoria faccia inaspettati scherzi. Potrei paracularvi raccontandovi lo straordinario metodo con il quale scelgo queste pellicole, ma non voglio mentire ai miei lettori: la verità è che mi faccio guidare dalla futilità del momento, da una fame cinefila improvvisa che, come un Raymond Burr alcolizzato, non mi da’ pace. In questa strana ottica di film ripescati al momento abbiamo (e avremo) film di ogni nazione, dall’esotico oriente alla Calabria in profumo di West, un universo, un po’ alla Dylan Thomas, dove un ninja diventa un vecchio beone e si tramuta in una fanciulla con lo sguardo di un killer. Vi avevo scritto che avrei recensito Dove volano i corvi, mi sa che dovrete ancora pazientare: non sono famoso per mantenere la parola data, mi ritrovo bene tra i bastardi che racconto. Questa settimana parliamo di un nostro poliziesco, uno dei titoli più famigerati della stagione “giungla d’asfalto” della nostra cinematografia: quell’Italia a mano armata che segnò la fine del breve sodalizio tra uno dei nostri commissari di Ferro più famosi, Maurizio Merli, e il regista che, prima di altri, l’aveva scoperto come interprete d’azione, Franco Martinelli.
Non che Maurizio Merli fosse uno sconosciuto all’epoca, era stato interprete di un celebre Garibaldi televisivo, ad esempio, ma fu però proprio grazie a Roma violenta (uno degli incassi più forti del 1975) che divenne un eroe con il quale la gente poteva immedesimarsi. Stiamo parlando di un cinema senza pretese, pura serie B, che cercava in quel momento di spremere una gallina dalle uova d’oro, quel La polizia incrimina la legge assolve di Enzo G. Castellari che stabilì per primo le rozze regole di questo sottogenere: pestaggi violenti, città piene di malavita, commissari maneschi ma dal cuore d’oro e tanta azione. Per l’occasione Merli si fece crescere i baffi, proprio per assomigliare al modello del poliziotto interpretato da Franco Nero, riuscendo per certi versi a trasmutare, se non per bravura recitativa almeno nell’immaginario collettivo, da clone ad icona del genere. Franco Martinelli, che rispondeva al nome di Marino Girolami, era un artigiano noto per la velocità e perizia nel confezionare i suoi film, qualunque genere fossero, prodotti di cassetta rozzi ed efficaci quanto bastava per essere venduti alla massa. Senza poi dimenticare che, casi del destino, era il papà di Enzo G. Castellari. Il suo commissario Betti che digrignava la mascella e uccideva a sangue freddo i delinquenti, sotto gli applausi della povera gente, ci mise poco a diventare un personaggio di culto, ed essere scippato da altri autori. Napoli violenta di Umberto Lenzi mette in scena lo stesso eroe di Martinelli, interpretato sempre da Merli, in una città diversa e con un maggiore piglio spettacolare. C’è da dire che Italia a mano armata è uno dei polizieschi più vari, almeno a livello geografico, con tante location (Torino, Milano e Genova) e quindi la possibilità di creare una storia con un respiro maggiore.
Peccato che la sceneggiatura (ad opera di Leila Buongiorno, Gianfranco Clerici e Vincenzo Mannino) invece risulti confusa, persino difficile da seguire: si passa da un sequestro di uno scuola bus (un furgone con scritto in inglese school bus, probabilmente l’unica cosa che la produzione poteva permettersi) ad una guerra tra narcotrafficanti in Liguria. Italia a mano armata sembra un film diviso in due tronconi, la parte del rapimento e quella finale a Genova, collegati con tanto sputo e ancor più fantasia. A rivestire i panni del cattivissimo Albertelli, industriale con il vizio della droga, è John Saxon, attore americano molto attivo nel nostro Paese e noto al grande pubblico dell’epoca per il grandioso I tre dell’operazione drago con Bruce Lee. Tra i comprimari si possono citare il grande Raymond Pellegrin nel ruolo di un commissario (finirà paralizzato) e Massimo Vanni in quelli di un poliziotto sotto copertura (sarà legato ad una macchina e sfracellato contro un masso). Troviamo poi tra i molti caratteristi un attore anomalo nel poliziesco, irriconoscibile nella sua giovane magrezza, Maurizio Mattioli, famoso per i suoi ruoli comici, qui nei panni di un carcerato incazzato con Merli.
Aperto poi alle discussioni degli appassionati il finale che vuole morto il commissario Betti: riappropriazione del personaggio da parte di Martinelli? Desiderio di terminare in tragedia i due polizieschi con Merli (più l’apocrifo lenziano)? Mah, in un cinema di artigiani da catena di montaggio l’autorialità sembra un vezzo troppo azzardato, più verosimile è la ripresa del finale di Roma violenta dove il sogno del poliziotto Ray Lovelock acquista qui tragicamente forma. Certo è che, difetti o meno, Italia a mano armata, anche grazie alla colonna sonora di Franco Micalizzi, ti fa venire voglia di salire su una Lamborghini, sfrecciare a tutta velocità per le strade della tua città (che diventano, a scelta, violente o a mano armata) e pregare Dio di incontrare un criminale per sforacchiarlo di colpi. Qualcuno pensa a GTA V, noi, i più nostalgici, a Maurizio Merli. Ad ognuno i suoi miti.
Andrea Lanza