Bukowski e il nucleare.

Creato il 19 aprile 2011 da Fishcanfly @marcodecave

La locanda del bucaniere continua a prestare i suoi servigi ai diversi viandanti che si arenano lungo la costiera del drago d’oro, rifocillando quest’ultimi più del dovuto. A chiunque decidesse di passare da queste parti, non si escluda dall’ inzuppare i propri baffi nella schiumosa birra del vichingo piangente.

di Alessio Belli

Quando nel 1967 Henry Charles Bukowski pubblica Storie di ordinaria follia, dall’esplicito sottotitolo Erezioni Eiaculazioni Esibizioni, anticipa di 44 anni l’inferno geo-nucleare abbattutosi sul Giappone e altre limitrofi catastrofi. In quell’orgia letteraria fatta di sesso estremo e logoranze alcooliche c’è il racconto più allucinato, disturbato, malato e sconcertante dell’autore; Animali in libertà, il capolavoro dell’opera a pari merito con Macchina da fottere (altrettanto indimenticabile, ma sicuramente meno inquietante). Il brano s’apre con l’ennesimo traumatico risveglio  in strada del protagonista – ovviamente il nostro Mister B.  -  alle prese con i postumi di una clamorosa sbornia.  Arrivato al limite della sopportazione, tra colazioni a base di scadente vino rosso e un sole impertinente, l’idea che s’imprime nella testa del debosciato personaggio è quella di farla finita, di trovare un bell’angolo illuminato dove lasciarsi morire  di fame. Senza troppi problemi. Come i vetri d’una bottiglia negli occhi le parole delle primissime righe si conficcano nella testa del lettore con una drammatica ed esplicita brutalità, riuscendo a far capire quanto non ci sia nulla nella vita per cui vale la pene vivere; il tutto espresso nello stile Bukowski, senza troppi pianti o patemi, nella pura, scarna e terribile realtà dei fatti:

“Non provavo alcun rancore verso la società, poiché non ne facevo parte. A ciò mi ero da tempo adattato.”


Il vagabondare lo porta all’estrema periferia della città, tra vecchie case contro cui bussare per chiedere un bicchiere d’acqua. Ma le case non sono tutte uguali. Gordon, così si chiama il nostro protagonista, scegli nel nome di chissà quale arbitrio una casetta accogliente da cui proviene però un forte odore di sangue, carne cruda e merda. Apre Carol, una bella ragazza dai capelli rossi, che gentilmente accoglie e disseta il derelitto. E ben presto Gordon scopre che Carol è matta, che è stata ricoverata più volte e che quell’odore di carne ed escrementi deriva dal fatto che questa ragazza ospita nella sua dimora un intero zoo: scimmie, tigri, serpenti e compagnia bella. Dice di amare e di trovare molto più degni di rispetto gli animali che gli  essere umani. I due continuano a parlare e Gordon supera l’iniziale shock fermandosi a dormire da lei, anche perché non ha altri posti dove stare. Scopre così che Carol ama così tanto gli animali da scoparseli anche, uno a notte: prima il biscione, poi la tigre e poi l’ultimo degli animali; Gordon. La convivenza continua e la bizzarra padrona di casa resta in cinta. Poco prima di partorire i vicini di casa, stufi dei rumori e degli odori gli sterminano lo zoo casalingo e da quel momento la fanciulla inizia a fare sogni inquietanti sulla fine delle cose. Finché non arriva il giorno del parto ed ecco la corsa all’ospedale. Il dottor Jennings tranquillizza Gordon; tutto apposto, è un maschio, quattro chili e duecento. Il nostro eccitato neo papà corre a vedere il bambino, dice il nome all’infermiera che glielo va a prendere e sorridendo lo porge al padre. Poi il destabilizzante e traumatico finale; il bambino è il sunto di tutte le bestie delle zoo accoppiatesi con Carol (alce, coyote, lince, alce, orso, tigre, orango) più Gordon. Neanche il tempo di realizzare che l’edificio inizia a tremare e l’infermiere a strillare; la prima bomba all’idrogeno è caduta su Los Angeles.

Qualcuno di voi adesso si starà domandando cosa possa passare nella testa bacata della persona – ebbene si, proprio il sottoscritto – che ha scritto questa breve sinossi in cui si accomuna l’inferno giapponese alle vicende del più famoso degli alcoolizzati letterari. Poiché la persona che scrive non è ancora bacata del tutto, ci tengo a giustificare queste righe partendo un passo alla volta.

Iniziamo da Mister Bukowski. Nel suo racconto viene fuori nella maniera più originale e spiazzante il profondo pessimismo nutrito dall’autore nei confronti dell’umanità e della società. Lui, l’emarginato volontario per eccellenza, sempre più fuori dal giro dei normali, arriva alla periferia del mondo, un mondo in cui altri folli ed esclusi arrivano addirittura a sostituire le persone con gli animali, visto che ormai di differenza ce ne è molta poca. Carol nel suo ruolo di benefattrice spassionata e madre di una nuova umanità ibrida rappresenta gli ultimi scampoli di onestà. E perché far cadere sul L.A la prima bomba all’idrogeno? Perché farla cadere proprio sull’ospedale dove il il sfigurata incrocio bambino-cucciolo di svariati animali è appena finito tra le braccia di uno dei suoi tanti padri?

Perché la vera fine, la fine del mondo, l’apocalisse autentica, scatta non si riesce più a distinguere tra l’uomo e la bestia, tra i folli costruttori di una nuova Arca e i sani sterminatori di genti. Ben calato nel contesto dalla Guerra fredda Bukowski aveva visto giusto, in anticipo; prima di preoccuparci se le bombe esplodono, preoccupiamoci per cosa siamo diventati. Prima di preoccuparci della loro esplosione, vediamo prima che cosa distruggono – sempre ammesso che sia ancora qualcosa che vale la pena salvare. Da quell’originale parto ad oggi le cose non sembrano essere cambiate; quanto ancora dobbiamo distruggere prima di accorgerci che stiamo succhiando via la linfa dalla nostra Terra? Quanti pseudo-complotti dobbiamo sentire per non realizzare la lunghezza della lista delle persone pronte e speculare sugli ultimi olocausti?

I governi e chi ci dovrebbe rappresentare non mi fanno stare tranquillo, anche perché in contemporanea un’altra ideale bomba ad idrogeno è cascata anche sulla Libia. Ma non voglio farla lunga ed annoiarvi, volo solo dirvi che per me  quel vecchio beone a cui sono molto affezionato l’aveva vista lunga; la fine del mondo siamo noi, i nostri atteggiamenti, le nostre scelte, il nostro mischiarci tra gli animali, il nostro diventare animali. Conviene conservare il cordoglio per le vittime ed accettare la lezione dello scrittore made in U.S.A  e sperare che il disastro nucleare posso diventare un avvertimento ed un monito, evitando di finire anche noi nella stessa sala parto di Bukowski.

Concludo dicendo che scorgo molti e cupi parallelismi tra il finale del racconto e la tragedia Giapponese, sopratutto perché – anche un ottimista cronico come me – constata che le circostanze non sono molto lontane. Anche senza l’utero gravido di Carol e i suoi Animali in libertà.


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