Recensione di Fulvia
Non è facile parlare di Bunker Diary. Non lo è innanzitutto perché parlarne un po’ inevitabilmente lo impoverisce. Meglio buttarlo giù tutto d’un fiato senza saperne nulla, se non che è uno di quei drink che spaccano lo stomaco.
Il titolo stesso, sapientemente non tradotto, come sempre più spesso accade ai libri che arrivano da Inghilterra e Stati Uniti, sembra il nome di un cocktail a base di rhum. Perdonate la metafora alcolica, detta da un astemia non è certo un inno alle divagazioni etiliche, ma rende l’idea.
Il recensore si fermerebbe qui, ma non può, deve fare il suo mestiere e provare a dire e non dire, a cominciare dalla storia. Il protagonista è Linus, 16 anni , chitarra a tracolla e una vita in strada da quando è scappato dal collegio dove il padre, ricco e assente, lo ha piazzato perché incapace di occuparsi di lui. È un bravo ragazzo, lui stesso si definisce così (il racconto è in prima persona, un diario come dice il titolo), e vedendo un cieco in difficoltà lo aiuta a sistemare una valigia all’interno di un furgone. È una trappola e il ragazzo viene anestetizzato. Si risveglia su una sedia a rotelle in un ascensore che si apre su un appartamento senza finestre: sei camere arredate in modo essenziale e una cucina con sei piatti, sei posate, sei bicchieri.
Niente da mangiare, solo un tempo infinito per pensare a quanto accaduto, a come fuggire, al proprio passato. Poi l’ascensore torna ad aprirsi e dentro c’è una bambina di nove anni, Jenny.
Un dopo l’altro arrivano in tutto sei persone. Non c’è nessun apparente legame tra di loro, ma una storia più o meno uguale da raccontare: si sono fidati della persona sbagliata, sono stati narcotizzati ed eccoli lì.
Una donna in carriera sprezzante e isterica, un uomo d’affari obeso e presuntuoso, un tossicodipendente corpulento e dall’aspetto minaccioso, un anziano genio della fisica, gay e malato di cancro.
Il persecutore gioca con loro, asseconda i loro desideri, ma li punisce terribilmente quando tentano la fuga, li provoca, li tormenta. L’ascensore è al centro di tutto: da lì arriva il cibo, il premio, e la punizione (e questo particolare ricorda il primo volume della trilogia di Maze Runner).
I sei prigionieri sono come topi in un laboratorio. Eppure cercano in qualche modo di convivere malgrado qualche tensione, qualche sospetto o piccoli dispetti. Allora il deus ex machina alza la posta, vuole tirare fuori il peggio da loro fino a quando non si diverte più a giocare, forse perché alla fine il male si estingue e resta la solidarietà.
Diceva Sartre nella piéce teatrale A porte chiuse che “l’inferno sono gli altri”. Eppure il nostro adolescente conserva una rettitudine incredibile, non piega la sua anima al gioco del persecutore, così come innocente e puro è l’atteggiamento della bambina, con cui da subito il ragazzo stabilisce un sodalizio fatto di sostegno reciproco e di affetto. Anche in un altro romanzo claustrofobico, Cecità di Saramago, la convivenza forzata tira fuori il peggio da alcuni, lo spirito di solidarietà da altri. È così che accade nella vita: questione di scelta. E quella di Linus sta tutta nella sua definizione iniziale: io sono un bravo ragazzo.
Tramortita da un finale crudele mi sono chiesta se fossimo davanti a un nichilismo gratuito, un sadico gusto della provocazione che ha comunque incontrato il favore della critica visto che il romanzo è stato insignito con la prestigiosa Carnegie Medal nel 2014.
Io non so che cosa volesse trasmetterci l’autore, se ci fosse un messaggio preciso in un esito così spiazzante, ma ho trovato la mia risposta, forse perché reduce da un viaggio ad Auschwitz. Anche quel campo di sterminio era come un bunker in cui giocare con le vite degli uomini. Non tanto di quelli che morivano nelle camere a gas (pur nel suo orrore e nella sua beffa finiva tutto abbastanza in fretta) quanto per tutti quelli che dovevano sopravvivere per settimane o mesi del tutto in balia degli apparenti capricci dei loro carnefici. Di fronte all’abisso di insensata sofferenza e morte quasi certa si poteva solo affermare attimo dopo attimo la propria vita con il massimo della dignità. Questo fa Linus fino all’ultimo respiro continuando a scrivere il suo diario, trovando nella scrittura la sua salvezza riga dopo riga.
Brooks ci ricorda che il male assoluto esiste, è sempre esistito. Una verità che fa male, ma è una verità, e non possiamo chiudere gli occhi, ma sforzarci di rimanere integri.
(consigliato dai 13 anni)