di Aida Bejic
con Marija Pikic, Ismir Gagula
Bosnia-Herzegovina, Germania, Francia, Turchia 2012
Durata 90'
"Buon Anno Sarajevo", è la traduzione italiana che traduce l'originale "Djeca" (bambini) con un'ironia ed una speranza che ribalta il senso di mestizia di una film senza scampo, in cui c'è poco da sorridere. D'altronde non potrebbe essere altrimenti nella Sarajevo di oggi, segnata nel corpo e nello spirito dalle conseguenze di un passato rovinoso, e ridotta allo stremo dalla corruzione politica e dalla crisi economica. A cercare di resistervi i due fratelli della nostra storia, Rahima e Nadim, orfani condizionati da precarietà finanziaria . Per "liberarsi da quella vita" (secondo le parole pronunciate ad una certo punto dalla donna) Rahima, mussulmana con il velo spende il tempo lavorando in un ristorante gestito da un padrone irascibile e prepotente, ed occupandosi del fratello, adolescente irrequieto alle prese con i problemi di una crescita messa a rischio dalla mancanza della normalità familiare. Il destino si accanisce contro di loro quando, a causa di una rissa scolastica Nadim rompe il cellulare del figlio del ministro. Ripagarlo comporterà dei sacrifici.
Costruito su un plot semplice e diretto, con un personaggio, Rahima, chiamato a funzionare sia come termometro esistenziale, sia come occhio privato sullo stato delle cose, "Buon Giorno Sarajevo" è un film acustico e visivo per l'importanza che le due componenti hanno nell'economia della storia. Scegliendo di raccontare una ferita, quella di Rahima, costretta a convivere con le reminiscenze di una città sotto assedio e con l'orrore da esse suscitato, la regista bosniaca decide di rappresentarla riducendo le parole e privilegiando una regia fatta di suoni e di spazi che la telecamera indaga e fa sentire (i rumori della città, complice anche la vigilia di capodanno, con botti sempre pronti a scoppiare riportano alla mente la deflagrazione delle bombe) seguendo, o per meglio dire, inseguendo l'indomita ragazza con una serie continua di piani sequenza: nella prima parte del film, quando gli indizi sono ridotti al minimo e Rahima è solo un "corpo al lavoro", attraverso riprese effettuate per lo più da tergo, e successivamente, a causa della contingenza che la spinge a relazionarsi con gli altri, e di conseguenza a rivelarsi, arricchite della situazione opposta, con sequenze dello stesso tenore ma questa volta frontali che precedono la giovane nella sue azioni, ed insieme testimoniano una partecipazione totale, ampiamente dichiarata dal modo con cui la macchina da presa sposa il punto di vista dei personaggi, immergendosi a livello sensoriale con l'esperienza in atto. La Begic è brava a non lasciarsi prendere dalla retorica - basterebbe vedere il modo con cui Rahima reagisce alla proposta del ministro che gli chiede di risarcirlo con una prestazione sessuale - raffreddando l'emotività dei contenuti con una ripetitività di gesti e situazioni che corrispondono alla volontà del personaggio di soffocare il dolore nella routine del quotidiano. Nel riconoscere le qualità di un'opera che si distingue per l'efficacia della sua messinscena e l'importanza del tema trattato, non si può non segnalare il senso di deja vù che la stessa nel suo complesso produce quando si confronta con il proprio contesto cinematografico, alla stregua della protagonista del film, impegnato a fare i conti con una transizione ancora lungi dall'essere superata.
(pubblicato su ondacinema.it)