Ieri incuranti del ridicolo, i Tg ci hanno mostrato la scena di due treni affiancati, uno un frecciarossa allegoria dinamica del neo futurismo, della modernità e della velocità, impantanato nella neve. L’altro un mansueto intercity pronto a dare ospitalità ai passeggeri dell’alta velocità, che attraversano la striscia di deserto candido, gambe affondate nel gelo, trolley trascinati faticosamente, anzi si vede uno con la valigia in testa come le donne del nostro Sud di tanti anni fa.
Ha ragione il Simplicissimus, ci si arrangia in una stremata colluttazione con la quotidianità punteggiata delle emergenze delle quali si nutrono poteri forti che delle crisi sembrano alimentarsi e delle difficoltà rafforzarsi, perché contrastare eventi straordinari facilita soluzioni estreme e autoritarie. Oppure catastrofi, eventi per niente naturali, inondazioni, nevicate, piogge, favoriscono una delicata e educata, immota inazione, che tanto l’acqua si asciuga, si spera nel disgelo che prima o poi arriva e tutto sommato a non fare non si sbaglia, e poi come dice il Simplicissimus, fottetevi, straccioni.
Molte cose sono cambiate in questi anni, ma non questa sdegnosa indifferenza all’interesse generale, alla qualità di vita dei cittadini e del territorio. Molte cose sono cambiate, tante e in profondità. Anche in modo di guardare a noi stessi, a un’Italia che nei suoi governanti e nei suoi intellettuali continua a pensarsi importante e non è invece mai stata così meschina, impoverita, stupita dalla sorpresa di un imbarbarimento, di una miseria morale oltre che economica. Che spiega la mancanza di reattività, l’accondiscendenza, la delega in bianco. Come se in presenza di un potere globale che decide del presente e del futuro, spossessati di tutto anche della capacità di comprensione e di decisione, non restasse altro che il mimetismo, l’acquiescenza, il chinarsi come il giunco in attesa che passi la piena.
E quelli che non si chinano, che non si abbandonano al cedimento, resistono si ma con una ostinazione senza illusioni.
Sono ardui i nostri tempi. Se si è convinti che il mondo possa solo peggiorare, se non si vuole cedere ai diktat di un potere dai mille volti ma una sola ragione di vita, alle difficoltà di resistere di fronte a un nemico così diffuso, a un “nuovo” che mentre propone l’accettazione più passiva: al mercato delle idee e del futuro, alla sua monolitica proposizione di consumo e consenso, di modelli, gusti aspirazioni, al tempo stesso produce in risposta solo le più cupe difese identitarie, rifiuto, diffidenza, beh allora bisogna elaborare ideali e visioni che accettino i limiti del nostro piccolo mondo. Bisogna superare il narcisismo consolatorio e illusorio della “modernità”, che si accoppia indissolubilmente con la conservazione di privilegi, dell’accumulazione di beni inutili per trovare un senso e un’utilità del nostro “bene” comune.
In questi giorni freddi e ripiegati abbiamo maggiore consapevolezza che a fallire non è stato solo il mito della Rivoluzione ma anche quello più modesto e forse sensato del Buon Governo. Si è tornati indietro rispetto all’utopia e anche alla ragionevolezza, indietro rispetto alle concrete speranze soffocate non solo da Capitale ma anche dal demone autofago di una sinistra negata sia alla concretezza che alla coerenza tra i fini e i mezzi. La Rivoluzione non si può fare, il Buon Governo è un sipario dietro il quale si consuma l’alleanza tra ricchi, arricchiti e aspiranti alla ricchezza per la spartizione della cosa pubblica, senza altra preoccupazione che una economia privata intesa al puro vantaggio dei pochi a spese dei molti.
Allora la soluzione è quella di riprendersela la politica, e con essa la città che ci invitano a spalare, i diritti che ci sollecitano a dimenticare in nome della necessità, la speranza che hanno ridicolizzato, la disubbidienza che a volte se non è una virtù è certamente un’arma nelle nostre mani.