Buona cultura? No, solo ottimo - inutile - titolo di studio
Creato il 21 novembre 2010 da SpaceoddityNaturalmente, la domanda presuppone una valida definizione di cultura e va da sé che in questo momento mi riferisco a un concetto accademico, se non esattamente dottrinale (non religioso), non antropologico (ambito per il quale ogni attributo sarebbe improprio e offensivo).
Mi limito dunque a un concetto di cultura come di conoscenza acquisita e maturata. Non il numero di libri letti e ripetuti a qualche esame, ma la quantità e la qualità delle informazioni fatte proprie. Ho sottolineato qualità perché credo sia proprio di un uomo colto saper qualificare e giudicare le informazioni possedute, eventulamente formulando dubbi sulla formulazione stessa della loro correttezza e proponendo soluzioni personali. Personali, è chiaro, sta qui per profondamente personali, non opinioni astratte (ed estratte come bussolotti della tombola).
Una buona cultura, secondo me, non ha bisogno dell'aggettivo generale, da cui spesso è accompagnata: è la capacità di saper entrare nel mondo a vasto raggio, di non conoscere barriere tra le discipline, ma di conoscerne i fondamentali. Per essere più chiaro, dovrei dire forse che si dovrebbe comprendere quale sia la finestra che una determinata disciplina apre sul mondo nel quale si vive e quali sono gli ostacoli intrinseci alla visione del mondo unilaterale attraverso questa finestra. Una buona cultura è, dunque, limitata dalla parziale conoscenza epistemologica delle discipline studiate (che, del resto, è frutto di una specializzazione nelle stesse) e dalla limitatezza del numero delle discpline studiate (numero che è già un approssimativo improverimento rispetto al continuum dell'essere).
Cosa succede quando non conosco niente della Cina del (nostro o del suo) XVII secolo? Niente, per il sistema odierno, perché non rientra nei programmi di scuola e "non si può sapere tutto". Ma che succede quando non conosco o non ho maturato cose che avrei dovuto imparare? Si matura un senso di colpa o di provocatorio disinteresse che mina alla base il sistema educativo, di cui l'ignoranza è motivo vergogna e forse traccia di autentico fallimento. I cocci di nozioni che non ricordiamo più bene, ma che si ostinano ad affollarci il pensiero, sono la prova che qualcosa si è rotto nel passaggio da una generazione all'altra.
Sono convinto che la vera cultura sia quella dell'autodidatta che ha frequentato finché ha potuto (anche economicamente) le scuole migliori e i maestri migliori. Sono convinto, insomma, che se un maestro non mi ha insegnato a cercare il mondo per quello che è, a valutare gli strumenti a mia disposizione, ha fatto male il suo lavoro. E non mi interessa se non so chi fosse Cusano o se non ricordo cosa vuol dire che delta è uguale a biduemenoquattroacci (salute!), è molto più importante, secondo me, vedere quale sia il problema dell'infinito e del finito che l'uomo ha provato e prova a risolvere.
La carenza di buoni insegnanti e di buona cultura ci rende tutti più deboli ed è frutto di un sistema scolastico che punta a certificare dati e valutare quantità, senza saper maneggiare gli uni e gli altri. Un titolo di studio certifica che io ho superato certe prove, che so affrontare certe mie difficoltà caratteriali, che ho subito certi abusi da parte di persone che interpretano il magistero come potere personale, che occasionalmente - occasionalmente! - posso aver trovato qualche 'brava' e 'colta' persona, ma non dice nulla di come sono cresciuto e di chi io sia. Perché non serve a niente che tutti leggiamo i Promessi sposi se poi non sappiamo cosa farcene.
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