“Buongiorno, notte”: claustrofobia brigatista al femminile

Creato il 10 maggio 2012 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

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Due grandi occhi neri, illuminati come Rossellini faceva con Anna Magnani, guardano con attenzione attraverso uno spioncino il volto di Aldo Moro. Un’immagine che sineddoticamente inquadra l’intero Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, un’opera pregevole che, attraverso una visione politicamente distaccata e un copernicano capovolgimento dei canonici punti di vista, ridefinisce le fattezze del cinema d’impegno civile e porta a compimento una ri-scrittura dello scivoloso “caso Moro” del 1978.

Rifuggendo il documento di denuncia e sorvolando sulle colpe dello Stato, Bellocchio prende spunto dal diario Il prigioniero della brigatista Annalaura Braghetti per mettere a fuoco una nuova doppia prospettiva: interna e al femminile.

L’ottica interna si concretizza nella claustrofobia dell’ambientazione tramite quell’appartamento che sin dalla prima sequenza ci viene indicato come protagonista. La mdp scorre sulle pareti con occhio attento, l’agente immobiliare lo descrive minuziosamente e aprendo le serrande trasforma il buio in luce, come ad aprire il sipario su quello che sarà il futuro patibolo del presidente della Dc. L’ottica è così morbosamente domestica che l’unico filtro con l’esterno è la televisione. E’ quest’ultima a mostrarci le immagini del tamponamento e della strage in via Fani, riunendo di fronte a sé i brigatisti come fossero una famigliola anni Sessanta ansiosa di vedere il Carosello. E’ la Tv perennemente accesa e presente, e il potere mediatico da essa esercitato, a far percepire ai carcerieri la gravità del gesto compiuto.

Ed è ancora la claustrofobia, enfatizzata dalla fotografia scura e pregna di ombre di Pasquale Mari, ad affannare con pesantezza anche l’animo di Chiara, detentrice della seconda caratteristica citata: l’ottica al femminile. Tutto ruota intorno a lei, unica donna soldato del plotone d’esecuzione del “Presidente” (come i terroristi rossi usano chiamare Moro). Vive in continua oscillazione tra sogno e realtà, pensiero e azione, paura e convinzione, memoria partigiana e ideologia proletaria. Opposizioni interiori incarnate da quell’urlo di gioia, imploso e strozzato in gola, (non) emesso una volta appresa la riuscita del rapimento.

Bellocchio ci mostra quindi il dietro le quinte (anche psicologico) del sequestro, inquadrando il tutto sin dall’inizio in una severa teoria della predestinazione (le grate della terrazza sono un’allusione alla futura cella del carcere istituzionale). Sguardi tesi, cambi di passo, passaggi di anelli, occhiate coi vicini. Il regista di Sorelle Mai ridisegna il rapporto tra vittima e carnefice, umanizzando entrambi. Moro è l’uomo sbagliato, che dorme in posizione fetale come un bambino ed è incapace di provare vero odio anche contro i suoi rapitori. Moro è mite, pio, devoto.

Insomma, lontano da film come Piazza delle cinque lune in spasmodica ricerca di verità certe, Buongiorno, notte è un’opera freudiana e dannata, che alza lo sguardo e punta oltre, che scava nella psiche dei personaggi e afferra con prepotenza la nostra attenzione di spettatori e italiani. Una pellicola densa di quel fulgido/nebbioso mistero e di quella voglia di gettare un occhio nuovo e ribelle sulle cose, che contraddistinguono tutta la filmografia di Bellocchio sin da quel magistrale esordio chiamato I pugni in tasca (1965).

Sei desideroso di leggere dei 4 finali che Bellocchio ha creato per questo film? Leggi QUI!



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