Paul Conroy (Ryan Reynolds) è un autotrasportatore americano, in Iraq per conto della Compagnia per cui lavora da qualche tempo. Pur non avendo nulla a che fare con le truppe militari assediate sul territorio, Paul e i suoi colleghi finiscono coinvolti in un agguato dei guerriglieri iracheni.
Esplosioni, spari, poi un lungo silenzio.
Quando Paul riaprirà gli occhi, scoprirà di essere finito in un posto un tantino meno confortevole del paradiso, ma probabilmente più insopportabile dell’inferno stesso.
Il giovane autotrasportatore si risveglierà sepolto sotto terra, all’interno di una cassa di legno (co-protagonista del film e ridondante seppur essenziale scenografia, in quanto unica location che imprigiona, per circa 90 minuti, Paul e spettatori).
Questi gli straordinariamente ambigui presupposti di un film ad altissimo rischio, se si aggiunge all’unico attore in scena e alla striminzita location, anche il fatto che Buried è il film opera prima del regista Rodrigo Cortés.
Ma Buried è un film che lascia il segno, di certo perché, per certi versi, cavalca l’onda del terrore anti-terroristico post 11 settembre (ma lo fa in maniera originale e non stucchevole), ma soprattutto perché riesce a prendere le distanze dal freddo ricamare su temi triti come guerra e terrorismo.
Buried riuscirebbe a reggersi anche senza essere calato nel mood antiterroristico tutto stelle e strisce, non ci sono distinzioni nette tra buoni e cattivi, tra cowboy e indiani. Anche perché qui gli indiani sono invisibili, la loro è una presenza pesante ma impalpabile, all’interno della cassa che è sia minaccia incombente che ultimo avamposto per il povero Paul che, armato di un videofonino, una matita e un accendino (e un altro paio di oggetti scoperti successivamente), dovrà riuscire a mantenersi in equilibrio fra le chiamate di sequestratori bramosi di dollari e quelle di impavidi militari tutti d’un pezzo, di agenti dell’FBI e di viscidi avvocati, in un conto alla rovescia davvero mozzafiato.
E il fiato mancherà per davvero anche allo spettatore più smaliziato, perché se non bastasse la grande capacità interpretativa di Ryan Reynolds e la sceneggiatura di Chris Sparling (quasi perfetta, se si vuol chiudere un occhio su un paio di trovate troppo appariscenti), a farlo immedesimare, e a creare una sorta di oscuro déjà vu, ci penseranno le segreterie telefoniche, le centraliniste scostanti e le attese in linea musicate.
La vita di un uomo ha un valore quantificabile? E se è normale che lo abbia per il sequestratore di turno, cosa risponderebbero a questa domanda le forze dell’ordine, i nostri datori di lavoro e i tanti altri benefattori che quotidianamente s’impegnano nel regalarci una vita sempre più ovattata?
Cosa sarebbero disposti a fare mentre i 90 minuti che ci separano dalla fine dell’ossigeno scorrono malvagi sul display del nostro cellulare?
Cortés si presenta con un invidiabile biglietto da visita, un film nato sotto l’ala protettiva dei cult di Hitchcock, che sfida lo spettatore cristallizzando le unità di tempo e di spazio, pur riuscendo a regolare con capacità, di volta in volta, le manopole di suspense e pathos.
Molto buono anche il lavoro fotografico, a cura di Eduard Grau, con il buio a concedere pause visive allo spettatore (ma senza l’illusione di un successivo cambio scena), e i tre validi oggetti luminosi a modificare intensità e dominanti delle spietate inquadrature.
Luca Ruocco