Burkina Faso. La patria o la morte, noi vinceremo!

Creato il 01 ottobre 2015 da Davideciaccia @FailCaffe

Cooperante da quasi tre anni in Burkina Faso ed in Costa d’Avorio, ho sempre cercato di trasmettere le difficoltà ma soprattutto le soddisfazioni del mio lavoro attraverso lettere, racconti ed articoli.

di Nadia Berti

Piazza Della Nazione; ora ha ripreso il nome di Piazza Della Rivoluzione

Dal nostro divano, piazzati davanti alla tele dopo una giornata di lavoro, non ci siamo nemmeno accorti di avere sotto gli occhi un esempio unico di integrità morale, di coraggio e di fierezza per l’intero continente africano e non solo. Il motto del Balai Citoyen (letteralmente “scopa cittadina”) spiega tutto: “il nostro numero è la nostra forza”; sono numerosi ed organizzati da tempo, da molto prima di quel famoso 30 ottobre dello scorso anno che ha messo in fuga il vecchio (ed acciaccato) presidente Compaoré.

Una rete di giovani, provenienti dal Burkina Faso e da altri Paesi dell’Africa occidentale, guidati da due musicisti pacifisti (Serge Bambara, in arte Smockey e Sams’K Le Jah). Si sono nutriti delle parole di un mito, di una figura che purtroppo non hanno potuto conoscere personalmente poiché Thomas Sankara, il “Capitano”, come lo chiamano tutti, è stato ammazzato all’apice della sua -troppo breve- carriera politica da politici a lui prossimi, con il sostegno di Francia e Stati Uniti (che da bravi garanti della libertà e dell’autodeterminazione dei popoli, hanno sempre negato il loro coinvolgimento in questo delitto), preoccupati che il vento di rivoluzione e di cambiamento potesse destabilizzare il loro potere in un territorio povero, ma geograficamente strategico.
Non sono mai state trovate le prove, ma si dice sia stato proprio Gilbert Dienderé, il capitano (con la “c” minuscola) che giovedì 16 settembre ha messo in piedi il più ridicolo colpo di stato della storia, a sporcarsi le mani del sangue di Sankara.

Murales:”Sankara, defense d’oublier”

Ma nel lontano 15 ottobre dell’87 gli artefici di quel delitto non potevano sapere che quella vittima, mantenendo l’integrità morale fino alla fine, avrebbe continuato ad infondere coraggio e sete di giustizia nella società civile burkinabé anche dalla tomba. Se il popolo è riuscito ad organizzarsi pacificamente per detronizzare uno dei dittatori più corrotti dell’Africa occidentale, perché non darsi da fare per sventrare un malconcio colpo di stato? Un passo in avanti era già stato fatto, non si poteva più tornare indietro. Quando si è davvero convinti di essere dalla parte del giusto, non si può non scendere in strada, tutti insieme, ed occupare gli aeroporti, le stazioni, le strade, per fermare le milizie dell’RSP (Reggimento di Sicurezza Presidenziale, guidato da Diendere, legato al CDP di Compaoré), anche se sparano alla cieca sulla folla munita solo di bastoni, pentole e scope.
Il bilancio ufficiale di una settimana di scontri: 15 morti e 114 feriti. Ma questo è quanto dicono i giornali internazionali (non di certo italiani… dov’è il Burkina Faso?). Dagli ospedali e dai centri di salute di Ouaga arrivano notizie di centinaia di feriti e addirittura di bambini dispersi.

Avere molte conoscenze a Ouaga e nelle altre città del Paese (Bobo, Tenkodogo, Ouhaygouia…) riesce a farti leggere i fatti in una prospettiva molto più viva e soprattutto reale: “sento gli spari, i colpi di mortaio. Oggi hanno messo il coprifuoco e credo proprio che domani non riuscirò ad andare al lavoro. Ma è inutile: l’importante è scendere in piazza e far sentire che noi ci siamo. La patria o la morte, noi vinceremo!“.
L’ultima frase dell’inno nazionale, scritto da un artista di etnia samo vicino a Sankara, ha cancellato i segni della colonizzazione anche attraverso i simboli, trasformando l’Alto Volta in Burkina Faso (Paese degli uomini integri, in lingue djoula e mooré) e attualizzandone l’inno. Voleva riappropriarsi del suo Paese e lasciarlo nelle mani di una popolazione consapevole e giusta: ed è questo che hanno fatto i cittadini burkinabé versando in ogni città ed in ogni villaggio sudore e sangue.

Moschea di Doulassoba, a Bobodioulasso, la seconda città del Burkina. Teatro di manifestazioni della società civile in queste settimane

Dieci giorni oggi e non è ancora finita: l’irruzione delle truppe dell’RSP, lo sventrato colpo di stato, la paura per l’arresto di Kafando (Presidente della transizione, ex Ministro degli Esteri) e di Zida (Primo Ministro), poi liberati. L’entrata in scena (tragicomica) dei mediatori della Cedeao (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) che imponendo condizioni ingiuste, poi rettificate, hanno solo contribuito ad aumentare il malcontento.
Intanto ieri è stato arrestato un certo Bassolé, un altro impresentabile alle elezioni che avrebbero dovuto aver luogo l’11 ottobre: l’ennesimo stimabile tentativo di rendere questa corsa alla poltrona il più trasparente possibile. Alla richiesta di deporre le armi, l’RSP, già debole a causa di divisioni interne e nervoso per la figuraccia mondiale, ha agito come un serpente moribondo che tenta disperatamente di affondare gli ultimi morsi alla vittima. Ultimi colpi di mortaio da lunedì, poi oggi il silenzio.

Resta solo la leggerezza dei passi della gente, che cammina e non si ferma, corre a celebrare la vittoria. Dienderé si nasconde tra le gonnelle dei vescovi, all’ambasciata del Vaticano a Ouaga 2000. La società civile burkinabé, come anche il Presidente della transizione, si aspettano che venga fatta giustizia. Per il momento la popolazione ne è uscita vincitrice, unita, compatta, consapevole che tante formiche, insieme, possono sollevare un elefante. Si andrà alle elezioni (entro fine novembre) ancora più convinti che non sarà più possibile tornare indietro. La patria o la morte, noi vinceremo!

Un pescatore nel fiume Sourou. Fiume caro a Sankara, che voleva farlo diventare la principale fonte idrica per l’agricoltura.

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