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Burkina Faso: riflessione sul percorso politico di uno Stato chiave della regione saheliana

Creato il 21 gennaio 2015 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Burkina Faso: riflessione sul percorso politico di uno Stato chiave della regione saheliana

Le rivolte scoppiate alla fine dello scorso ottobre hanno focalizzato l’attenzione sulla situazione politica del Burkina Faso. Ci si può domandare se la caduta di Compaorè, dopo ventisette anni di malgoverno, rappresenti un semplice cambio al vertice di un sistema compromesso o il preludio di un nuovo corso. In ogni caso, è certo che i problemi interni del Burkina Faso non sono limitati al territorio nazionale, ma si riflettono inevitabilmente oltre confine: pertanto, è plausibile ritenere che tali problemi avranno, se non ben gestiti, una significativa ricaduta sulla stabilità e sullo e sviluppo dell’intera regione.

 
La storia del Burkina Faso, fino al 1984 denominato Alto Volta, è assolutamente lineare nella sua complessità: un’affermazione apparentemente paradossale ma che ben evidenzia come il filo conduttore della storia di questo Stato africano sia contrassegnato da una profonda e continuata instabilità politica. Ottenuta l’indipendenza dalla Francia nell’agosto 1960, in un periodo storico che ha visto una decolonizzazione di massa del continente africano, il Burkina Faso ha risentito del comune senso di destabilizzazione che ha interessato quasi tutti gli altri stati africani inseriti nel medesimo processo; si sono così poste le basi perché si consolidassero concreti limiti, di natura socio-politica ed economica, per un sereno sviluppo nazionale.

Infatti, le superiori dinamiche continentali e i diversi interessi internazionali hanno coinvolto il neo-Stato in logiche geopolitiche che lo hanno penalizzato, frenandone ulteriormente la crescita economica e limitandone una propria coscienza di governo1. Inoltre, la storia politica del Burkina Faso è caratterizzata da una serie di colpi di Stato e violenti cambi al vertice che si sono susseguiti fin dagli anni ’60 e costantemente determinati da attori provenienti dalle fila delle forze armate. Questa “specificità” ha contaminato le strutture istituzionali e fatto in modo che, realmente, non vi fosse un cambio strutturale rispetto alla forma e alla stessa logica politica.

Tuttavia, pur in un contesto monotematico, un importante cambio di tendenza – in particolar modo rispetto alla politica internazionale di questo Stato – coincise con la salita al potere, nel 1983, del capitano Sankara, ufficiale aderente ad un movimento in qualche modo rivoluzionario. Sankara teorizzò una nazionalizzazione delle risorse e delle strutture produttive del Paese evidenziando, senza ombra di dubbio, un atteggiamento ostativo rispetto alle consuete ingerenze delle potenze economiche straniere; questa politica “azzardata” di certo concorse ad alimentare tensioni interne al suo stesso entourage, rivelatesi poi favorevoli al golpe del 1987 che portò al potere un altro militare, Blaise Compaorè. Compaorè ha guidato il paese fino al mese di ottobre 2014 quando, per placare la piazza, ha dovuto rassegnare le dimissioni dopo 27 anni di potere.

Egli, succeduto a Sankara, attuò da subito una politica tendente a ricreare delle dinamiche economico-produttive che, di fatto, posero il Burkina Faso alle dipendenze di economie straniere. In questo contesto si sono sviluppati i 27 anni di esercizio del potere di Compaorè; le elezioni tenutesi nel 2010, ultime a confermarne la vittoria, lo hanno visto riaffermarsi con l’80% dei consensi, un risultato prevedibile in un sistema, di fatto, monopartitico; tra i primi atti di quest’ultima fase di governo vi fu l’istituzione della figura di un Ministro deputato alle riforme, un passo che da qualcuno venne sapientemente visto come una prima mossa per approntare, a proprio vantaggio, riforme di rilevanza costituzionale. Lo scorso mese di ottobre Campaorè ha cercato di concretizzare, facendola approvare, una riforma costituzionale che abolisse, di fatto, i limiti di mandato, così da riconsentire la ricandidatura dello storico leader politico al prossimo turno elettorale. Una valutazione politica poco brillante dalla quale sono scaturite, durante lo stesso mese, decise manifestazioni di piazza poi concretizzatesi in scontri che hanno causato la morte di circa 30 manifestanti e il ferimento di un altro centinaio. Un risentimento popolare, spinto dal vigore di una popolazione giovane, under 25, che rappresenta il 60% dell’intera popolazione ed evidenzia un malcontento già accennato nel 20112.

In quella circostanza, in Burkina Faso, a causa di una sproporzionata crescita dei prezzi di generi di prima necessità, scoppiarono rivolte che non mancarono di evidenziare chiari riferimenti alle agitazioni tunisine innescatesi nel periodo della c.d. “Primavera Araba”; tuttavia risultò subito evidente che quanto stava accadendo in Burkina Faso era riconducibile più a disordini scaturiti da una situazione d’indigenza invece che da un movimento di evoluzione e a vocazione politica che volesse dare corso e seguito ad una vera rivoluzione. In effetti, i disordini rientrarono in poco tempo e non ridefinirono alcunché; tuttavia lasciarono uno stagnante malcontento che, debitamente strumentalizzato, è riemerso lo scorso 30 ottobre. I cruenti disordini, densi di drammaticità, hanno avuto vita breve. L’intervento dell’esercito nella duplice veste di repressore e mediatore ha per ora spento il fuoco della protesta; oltre a ciò, a stemperare la tensione ha contribuito la fuga di Campaorè, che ha lasciato il paese dopo aver compreso che non avrebbe più potuto porre rimedio ad una situazione politica ormai estremamente compromessa e sostenuta anche da esponenti del suo stesso governo.

La crisi, abilmente gestita dai vertici militari che non hanno lasciato alcuno spazio agli esponenti d’opposizione, si è poi concretizzata, di fatto, nella presa del potere da parte del “partito” delle forze armate.
L’attuale panorama istituzionale, formalizzato in un governo di transizione che si è impegnato a traghettare il paese verso libere e democratiche elezioni nel novembre 2015, è rappresentato da due figure preminenti: quella del Presidente della fase di transizione Michel Kafando, già esponente diplomatico del rovesciato governo e quella, certamente più controversa e “interessante”, del Colonnello Isaac Zida, capo dell’esecutivo e reale detentore del potere politico. Il Colonnello Zida appare come l’unico uomo forte in questo processo di transizione proprio in virtù della sua appartenenza all’unico vero potere che sia realmente strutturato, ovvero quello militare.

Il cambio al vertice ha formalmente ridefinito una situazione di “monopolio politico”, bandendo un governo personalistico e manifestando l’intenzione di indire libere elezioni; tuttavia, dal punto di vista sostanziale la situazione non appare così rosea; a ben vedere, l’intero processo è guidato da vecchi esponenti dell’incriminato apparato politico, con anche in prima fila protagonisti dell’unico e vero partito del Burkina Faso, quello delle forze armate. Queste condizioni gettano ombre sull’effettivo cambio di tendenza rispetto alla modalità dell’esercizio del potere politico in senso democratico. Infatti, è evidente come, per storia pregressa e mancanza di una tradizionale dialettica politica, il nuovo esecutivo difficilmente potrà e vorrà adottare un metodo di gestione della cosa pubblica che coinvolga tutti gli attori del panorama politico.

Il Burkina Faso è ora uno Stato in bilico tra le tensioni interne e le aspettative di una comunità internazionale che vede questo Stato come un elemento di equilibrio nell’area saheliana: anche per questo è forte l’interesse rispetto alle direttrici che la situazione politica intraprenderà. Il processo di transizione, avviato con modalità assai vaghe e dagli esiti tutt’altro che scontati influirà, in modo significativo, sul ruolo che il Burkina Faso potrebbe e dovrebbe assumere nel gioco del “bilanciamento” di sicurezza e stabilità nell’area sub-sahariana. Questo anche in funzione del fatto che in un contesto regionale generalmente precario, ogni singolo Stato che sia caratterizzato da una profonda instabilità politica può fungere da moltiplicatore dei fattori negativi in tutta la regione. Inoltre, la necessità di fronteggiare il terrorismo nell’area del Sahel3, che si presenta come un fenomeno profondamente cambiato, duttile e ridefinito secondo caratteri imprenditoriali, impone una seria riflessione circa l’opportunità di aiutare la tanto invocata stabilità politica di uno Stato che potrebbe assumere un ruolo chiave per la regione. Infatti il terrorismo, che in precise aree del Sahel ha assunto i tratti, assai inquietanti, di un modello sussidiario e sostitutivo di realtà governative totalmente assenti, rischia di radicalizzarsi secondo modalità non solo ideologiche, bensì secondo logiche socio-economiche, proponendosi cosi come unico vero “elemento istituzionalizzato” riconosciuto. I traffici illeciti hanno creato nella regione una rete economica che, seppur illegale, fornisce occupazione per i giovani delle realtà tribali che iniziano a condividerne, se non i valori, quantomeno gli interessi.

In questo scenario il Burkina Faso assume un ruolo importante, sia per la posizione geografica che gli consente di essere una piattaforma logistica4 per le azioni contro il terrorismo nell’Africa sub-sahariana, ma anche un modello di opportunità e di riscatto. Proprio in virtù di questo è auspicabile un tempestivo intervento della comunità internazionale, strutture ed organizzazioni regionali e a vocazione globale. Ciò non significa assumere un aspetto d’ingerenza rispetto a questioni interne, ma piuttosto esercitare una legittima pressione affinché forme di governo, che nominalmente si ritengono tendenzialmente democratiche, non possano rideterminarsi su di un piano totalitario e o personalistico. L’instabilità del Burkina Faso pone, potenzialmente, una serie criticità politiche con il vicino Niger e con il Mali, ora soggetto a un incerto processo di pace, ma non solo. Qui convergono e pesano responsabilità ed aspettative che fanno di quella che appare come una consueta questione interna, una questione ben più importante, anche in virtù di interessi statunitensi che proprio in questo stato si sviluppano per mezzo della istituzionalizzata presenza di AFRICOM5, struttura militare-diplomatica legata al Dipartimento di Stato di Washington che ha il compito di dar seguito alle politiche rivolte al continente africano.

Il Burkina Faso appare, in realtà più importante di quanto non si creda e proprio in virtù di questo l’ attenzione internazionale, seppur con discrezione, è certamente alta. Pare evidente che la nuova leadership che uscirà dalle prossime elezioni, sulle quali aleggiano ombre, dovrà confrontarsi anche con questi “affari internazionali”, determinando un certo grado d’influenza su di essi e convenendo in politica estera con le necessità di altri Stati a vario titolo presenti nell’area. Le Nazioni Unite seguono con attenzione le fasi della transizione di questo Stato6, auspicando una soluzione che sia almeno ragionevole e condivisa.

Superato lo stadio dell’entusiasmo per il dichiarato e, soprattutto, sperato nuovo corso, è oggi evidente come il periodo di transizione si preannunci tutt’altro che facile. A poco più di due mesi dalla fuga di Compaorè e l’istituzione del governo provvisorio guidato da Isaac Zida, iniziano ad emergere controversie e rivendicazioni da parte dei sindacati e dai comitati popolari che hanno promosso le levate di piazza di ottobre, favorendo la salita al potere dell’attuale primo ministro. Infatti, il mese di gennaio 2015 è stato da subito caratterizzato da richieste precise e concrete7 da parte dei rappresentanti di quei movimenti popolari che hanno consentito di imprimere un cambiamento politico e che ora rivendicano un’accelerazione rispetto alle riforme annunciate dal nuovo esecutivo8. Porre un freno alla disoccupazione, la richiesta della diminuzione del costo degli idrocarburi e le immediate dimissioni del Ministro delle infrastrutture – non ben visto dai movimenti organizzatori – sono certamente proposte valide: contestualizzate in una scena politica così compromessa assumono le vesti di un monito e si pongono, se disattese, come preludio ad un nuovo periodo di forte instabilità interna che specularmente si rifletterà sulla già precaria condizione della regione saheliana.


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