La causa principe di frustrazione arriva in genere dal rapporto difficile con l’organizzazione per cui si lavora, dalla burocrazia che frena anche durante le urgenze, con direttive fredde di cui non si riescono a condividere le convinzioni.
Lo stress del burn out è soprattutto emotivo, perché l’operatore sperimenta una sorta di incapacità di risolvere i bisogni altrui di cui si deve occupare; e ciò causa sensazioni si svuotamento, perdita di energie ed infine, ondate di cinismo.
Ci si sente frustrati perché l’organizzazione, la società, non risponde come dovrebbe, e più ci si impegna nel migliorare le cose, più gli altri frenano. Così la fonte di stress e di dolore nel burn out è duplice. Da una parte quella data da chi ci circonda, che non vede, non sente, non vuol capire per vivere con meno pensieri e dall’altra quella per empatia, della persona che per lavoro, professione o volontariato si sta aiutando.
È un logoramento psicofisico dovuto alla mancanza di energia e capacità di sostenere lo stress per le continue delusioni che si accumulano giorno dopo giorno. È una sindrome insomma, che capita solo a persone sensibili, che si fanno carico delle problematiche delle persone a cui badano, tanto da non riuscire né volere discernere tra la propria vita e la loro; così il dolore del prossimo diventa il loro. Encomiabile. Ma poi la durezza del mondo, le spezza.
La sindrome burn out seguirebbe quattro fasi.
La prima fase è quella dell’entusiasmo idealistico che spinge il soggetto a scegliere un tipo di lavoro per aiutare il prossimo impegnandosi totalmente e completamente in questo (per migliorare il mondo e se stessi, ma forse anche per qualche inconscio desiderio di esercitare una forma di potere o di controllo sui più deboli).
La seconda fase è la disillusione, quando si inizia a rendersi conto di come le aspettative non coincidano con la realtà lavorativa. Dinieghi immotivati dei superiori, inghippi burocratici e soprattutto indifferenza generale delle altre persone. Il senso di gratificazione legato alla professione inizia a scemare.
La fase più buia del burn out è la terza, la frustrazione porta al convincimento di non essere più in grado di aiutare alcuno; si prova la sensazione di inutilità, la percezione che nulla cambia nonostante tutti gli sforzi che peraltro i superiori non apprezzano. Ci si sente soli contro tutto e tutti.
Se si cede, si arriva alla quarta fase, l’apatia. La passione per il lavoro e l’interesse per il prossimo si spegne e subentra l’indifferenza, il disimpegno emozionale. Iniziano atteggiamenti negativi verso il prossimo che si sarebbe dovuto aiutare ma ormai si crede, di non poterlo fare, e verso se stessi, sentendosi colpevoli della propria incapacità verso il lavoro che si è scelto. Questo cinismo è una sorta di strategia particolare per difendersi dalle tante delusioni lavorative. È un esaurimento emotivo, un rifiuto nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura. Convinti a priori dell’inutilità del proprio operato.
I sintomi dei soggetti colpiti da burn out vanno quindi da un senso di esaurimento, apatia, nervosismo, depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia, risentimento, indifferenza, negativismo, sensazione di immobilismo, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti… fino ad un rischio suicidio soprattutto per determinate categorie. E così alla fine il danno è doppio, al soggetto operatore e all’utenza a cui viene offerto un servizio inadeguato e un trattamento cinico e meno umano.
Senza essere poliziotti penitenziari o medici di pazienti terminali però, se non la vera e propria sindrome, qualche episodio di burn out lo proviamo tutti.
Quindi, non è grave arrivare alla terza fase del burn out, nella professione, ma anche nei rapporti nella vita privata; l’importante è non trasformarsi in cinici della quarta fase e credere che niente di quel che si fa serva al mondo. I cambiamenti non si vedono subito, e chi dice “non cambierà mai”, non va ascoltato. La ferma convinzione nella propria strada testimonia la capacità di sperare ancora e nonostante tutto.
Naturalmente questo è solo quel che penso io, ma sono famosa per essere una testa dura che non si arrende mai.
Bloody Ivy