Ero a casa. In molti sensi. Ma il più evidente era che questa gente ha un concetto del contatto fisico che è praticamente identico al mio. Si abbracciano, si stringono la mano, te la prendono e te la stringono quando camminate per strada, ti saltano addosso e tu salti addosso a loro, gli tiri il naso, gli fai il solletico – che li manda regolarmente ai matti – e poi vorrebbero, specie i più piccini, starti in braccio tutto il giorno. Ogni sera spiavo, seduto sulla mia poltrona, l'arrivo di Hope, una robusta cinna di tredici anni dai non chiarissimi rapporti di parentela, come avrò a dire. Lei compariva sulla porta di casa, mi guardava, socchiudeva gli occhi con aria furbetta. Io scattavo. Lei correva. Io l'afferravo, la sollevavo, la buttavo sul divano (gentilmente), e dài con il solletico. Lei ride come una scema e contemporaneamente fa le sue lamentazioni di rito (Aaaaah! Uncle Giulio, you're disturbing me! I'm going to cry! Maaammaaaaa) seguite dalle mie risposte (You deserve it!! You are STUBBORN! STUBBORN!! HOPU!). Hope era anche mia allieva (va in P4): era l'occasione per ricordarle che doveva fare i compiti per il giorno dopo. Due giorni dopo il mio arrivo, la gente si riferiva già a lei come alla mia little sister. E in effetti mi rendo conto di avere sviluppato nei suoi confronti un attaccamento molto più fraterno e protettivo del mio solito. Sta di fatto che al mio ritorno, la prima sera, la casa mi è sembrata molto vuota senza lei che tentava di evitare i miei catturoni.[continua]