Non c’è dubbio che Steven Moffat abbia scombussolato per bene Doctor Who, portando una narrazione iperattiva e ipercomplessa che avrà anche sacrificato l’epica drammaticità di Russell T. Davies, ma che ha dato a Matt Smith e compari la possibilità di un restart effettivo e concreto con cui dimenticare, per quanto sia scorretto e ingiusto usare questo termine, le stagioni con David Tennant. Ma dopo una season six incontenibile e da mal di testa per la sua impossibile vorticosità, era lecito aspettarsi, soprattutto considerando il fulcro di questa prima parte della settima tornata, una maggior densità emotiva, lasciata probabilmente in disparte perché, dispiace dirlo, sembra proprio che Moffat si sia in qualche modo stancato dei suoi personaggi comprimari e li abbia voluti salutare al più presto per potersi buttare totalmente nella nuova compagna del Dottore, la bella Jeanne-Louise Coleman, che si è presentata nel primo episodio e che di certo non farà rimpiangere Karen Gillian.
Spiegamoci. Da una puntata comunque forte e commovente come The Angels Take Manhattan non ho ricevuto quella potenza narrativa e teatrale che Davies ha invece saputo sprigionare per il saluto di tutte le Doctor-ladies, a partire dall’indimenticabile addio di Billie Piper. Due stagioni e mezza di viaggi interstellari non possono infatti venire liquidate con la velocità con cui i Pond lasciano il Dottore, né la ruspante emotività dell’ultimo Time Lord può essere trattata con tale superficialità, e quindi dispiace, dispiace molto vedere come il tutto si riduca a un semplice, irritante “I’m so sorry” che davvero non si può accettare.
Il resto di questa prima parte non bilancia tale asprezza, non è esaltante come speravo nella sua episodicità pur presentando comunque buoni spunti e, più di ogni altra cosa, una continuità strutturale che era forse il maggior difetto della precedente stagione. La follia moffattiana è stata infatti ripresa in due dei cinque episodi, mostrando un Dottore circondato da molti personaggi e alle prese con situazioni piuttosto strambe, rapidissime e brillantemente montate: esempio perfetto è The Power of Three, miglior puntata della cinquina, sentita e prorompente, divertentissima e malinconica, mentre in misura minore Dinosaurs on a Spaceship, dove si apprezza l’esplosiva messa in scena di situazioni a dispetto di una trama sempliciotta, come in fondo sempliciotta, e insopportabile, è A Town Called Mercy, riempitivo terrificante per spunto banale e morale insignificante, tanto da chiedersi perché spendere in costumi e scenografie western se di filler inutile si tratta.
Inevitabile quindi chiudere con l’ottimo primo episodio, dove un Moffat più controllato del solito ma eccellente nella scrittura ironica dei dialoghi,cura una storia efficacissima ed esilarante, dando una nuova veste ai Dalek e introducendo nel miglior dei modi quella che, chissà in quale maniera, diventerà la nuova compagna del Dottore.