venerdì 23 settembre 2011 di Miriam Rizzo
Guardare da lontano una terra e sperare che sia quella della salvezza. Posare gli occhi su un orizzonte e riporvi desideri, riscatti. Ma c’è posto? C’è posto in quel mondo che vedo da lontano? Parlare una lingua diversa ed immaginare la comunicazione, muovere le mani in modi differenti e capire il senso di quei gesti. Una terra ferma da cui ripartire, dal sud al nord alla ricerca di un punto e a capo. Poi affrontare il viaggio, fare la valigia e scegliere cosa mettere dentro e cosa lasciarsi alle spalle.
Ci sono donne che dalla profonda Africa, guardano davanti a sé, oltre lo sguardo di chi hanno intorno, cercando quello del marito già lontano, fuori, oltre quell’orizzonte splendido e stretto, ma allo stesso tempo così grande. Ci sono donne che da una terra di confine del mondo “ricco” guardano oltre la linea della loro isola in mezzo al mare, pensando di arrivare ad una “terra ferma” un po’ più interna a quell’Europa di cui si dice di far parte, la vogliono raggiungere. Il mondo a cui si appartiene, a cui dicono che si appartiene, fuori dalla realtà di ogni giorno, vestito di dorata possibilità, quella terra ferma è il nuovo mondo. Fatto di lavoro, emancipazione, nuove possibilità.
Possibilità che si cercano anche a due passi da sé, ma che sembrano così impossibili, in una realtà che sembra rifiutare il cambiamento, che è radicata così tanto nelle regole più originali e proprie da rifiutare quelle di quella vita dorata aldilà del mare.
Il coraggio sta un attimo dopo la scelta, quando bisogna salutare e guardare indietro la casa da cui si scappa. Affrontare il viaggio, molto spesso non è semplice, uomini e donne carichi di speranze investono soldi e vite in rotte sconosciute verso cui puntare tutto. Viaggi infiniti avvolgono gli anni di intere famiglie, singoli uomini e donne. Si attraversano deserti, distese d’acqua, e si toccano luoghi sconosciuti, luoghi in cui non si vorrebbe neanche andare, ma a che fanno parte del compromesso per la salvezza.
Nel film di Crialese, Terraferma, si incrociano gli sguardi di due donne sole con il peso di un domani migliore per i propri figli, un orizzonte verso cui guardare con serenità, senza cercarvi dentro la fuga. Una donna viene dall’Africa, con un figlio in grembo frutto delle violenze che le hanno inferto in carcere, si perché, quella voglia di fuggire, è essere clandestini, ed esserlo è un reato. Ma tutto ciò non può essere pagato con la violenza, con la mortificazione solo per aver chiesto una possibilità.
Poi c’è un’altra moglie al centro del Mediterraneo, al centro di quel crocevia della disperazione che tanti attraversano per arrivare alla “terra ferma” . Lei il Mediterraneo lo ha sotto i piedi, ne sente il profumo ogni mattina, ne cucina i pesci come le hanno insegnato, ma anche lei guarda aldilà di quella distesa. E’ uno sguardo che si rivolge oltre dopo aver guardato al destino del figlio.
Sono due donne, sono due mamme, entrambe cercano un posto, un luogo.
Il nostro cinema ci propone ormai da tempo la tematica della migrazione, forse perché come l’Italia in pochi oggi possono capire cosa significhi vedere e sapere che alle nostre spalle, di fronte a noi, nel nostro mare c’è gente che cerca qualcosa, che approda ai nostri confini con quella disperazione che un tempo fu nostra. Ma la domanda è se vi sia un’apertura alla possibilità di un posto anche per gli altri o se invece la paura dell’altro abbia ormai coinvolto elementi della stessa comunità, questa unione europea che ha paura dei suoi stessi membri, Italiani spaventati dalla disperazione di chi viene dal mare, dalle lotte di chi è a due passi da noi, ma anche di chi sembra puntare il dito contro, che sembra non trovarci adeguati, ed allora, forse bisognerebbe chiedersi se c’è posto e per chi. Chiusi o aperti, lontani o vicini, scaraventati nel deserto o allontanati da una manovra economica, la questione è la possibilità di trovare un posto tra gli “altri”.