C’è stato un tempo eravamo in 25 a leggere Moresco di Rossano Astremo

Creato il 13 febbraio 2014 da Wsf

ph Ornella Orlandini

C’è stato un tempo eravamo in 25 a leggere Moresco, erano gli anni di La cipolla, Gli Esordi, i primi volumi di Canti del Caos, la prima edizione di Lettere a nessuno. Conservo ancora i bigliettini che mi mandava Antonio, con la sua piccola calligrafia scomposta, in cui mi ringraziava per le parole che dedicavo ai suoi libri o mi mandava in lettura i suoi nuovi lavori. Ora Moresco ha ottenuto la visibilità che meritava.Spero che venga letto. Non tutti i suoi libri mi hanno fatto impazzire. Alcuni li ho anche detestati. Moresco, però, ha scritto libri importanti. Gli esordi, dal mio punto di vista, è uno di questi. Se dovessi consigliare a un non lettore di Moresco un solo titolo sceglierei questo. E voi? Qui sotto alcune mie vecchie recensioni alle sue opere.

Canti del caos – parte seconda (Rizzoli, 2003)
Dopo la lettura degli Esordi e della prima parte di Canti del Caos, non ci stupisce più la ferocia narrativa di Antonio Moresco. La seconda parte di Canti del Caos prosegue quella lotta carnale dell’autore con la tradizione narrativa del Novecento. Differenziandosi dalle logiche postmoderne, Moresco non attua un’azione di montaggio e contaminazione tra generi eterogenei, ma una sorta di brillante rivoluzione copernicana in letteratura, volta all’oblio della struttura portante di un testo e all’abbattimento della figura – personaggio: ciò che emerge dalla sintassi di Moresco è una insieme magmatico di voci e vicende ridotte a brandelli, di corpi contorti, corrotti, sottomessi alle logiche svettanti della pornografia, con un’attenzione per il dettaglio fisico zoomato, con cazzi, fiche e culi che diventano metonimia di ciò che resta dei personaggi che tra le righe sembrano galleggiare, fluttuare, a tratti annaspare. Ciò che rimane intatto, nello spazio di realtà che Moresco ci scaglia contro, è la voce cantata dei personaggi che si innalzano dal delirio della quotidianità. I neonati strappati dal vento sono una piccola particella del macrocorpo moreschiano, comprendente il Gatto, il Matto, la Meringa, la Musa, personaggi già presenti nella prima parte, a cui si aggiungono un softwarista, un account, traslocatori, stupratori, sbandieratori, una donna gravida, un uomo che incendia le spore, una ragazza dalle stampelle profumate, una donna dalla testa espansa, cazzi, matrici, uno stilista di nome Lupus, una ragazza con l’acne e una non c’è assorbente che tenga, corpi che si arrovesciano nella corsa, indossatrici dal naso pieno di merda, ragazze scartavetrate che esplodono come soli, in questo mondo possibile da brividi, in questa finzione che spinge al vomito, al contorcerci delle budella delicate. Prendete, per esempio, questo breve esempio, inizio del Canto dei cazzi: “Stiamo convergendo anche noi da tutte le parti verso quel punto, sui nostri lunghi arti che si stagliano nella notte, i nostri cazzi fosforescenti, giganti. Spinti fuori dall’osso pubico puntato in avanti per questa corsa arcuata, crescente, come quelle schiere di insetti che vengono avanti in formazione coi loro pungiglioni innestati nel brulicare dell’aria messa in fermentazione da una miriade di ali trasparenti, innervate”. Tra questi canti, che sostengono ritmicamente la narrazione, esiste un filo conduttore rappresentato da una campagna pubblicitaria mai osata prima, che porterà alla vendita del pianeta Terra. Canti del Caos è la moderna discesa negli inferi, dove vengono cinicamente ed esasperatamente esplorate le dimensioni più vorticose dell’economia, della pubblicità, della moda, della televisione e della virtualità dirompente, con un’azione corrosiva che distrugge ogni etica ben confezionata, modellata e impasticciata a dovere. Quello di Moresco rappresenta un viaggio ultimo, con il mondo preso per la gola, strangolato, sfibrato, un viaggio che sfida le trame del romanzo creando una struttura stilistico – formale e contenutistica senza precedenti. Moresco, con Canti del Caos, distrugge le definizioni ben iniettate di generi, storie, personaggi, proiettandoci con violenza in un punto, forse, per la letteratura, di non ritorno.

Lo sbrego (Rizzoli, 2005)
“Io non ho mai letto niente. Io non so se quello che faccio quando colloco i miei occhi nistagmici di fronte al plasma della visione alfabetica sia quella cosa che viene generalmente chiamata lettura. Se devo dar retta a quello che dicono in molti su questo argomento, io non conosco, non ho mai conosciuto l’esperienza della lettura. Per me leggere non è leggere”. Con questo incipit paradossale prende avvio Lo sbrego, interamente dedicato alla pratica della lettura, ultimo lavoro di Antonio Moresco, autore, tra gli altri, del poderoso romanzo Canti del caos, del quale si attende il terzo e conclusivo volume. Lo sbrego, uscito con la Bur, nella collana Holden Maps/Scuola Holden, non rappresenta solamente un poderoso excursus nelle letture di Moresco, ma è un espediente che lo scrittore mantovano utilizza per raccontare se stesso, nell’alternarsi di episodi del passato susseguitisi nella sua difficile esistenza con avvenimenti del presente che strutturano la sua routine quotidiana. Le difficili vicissitudini della vita di Antonio Moresco sono state già raccontate nel romanzo Gli esordi, dove lo scrittore parla dei tre nuclei sostanziali che hanno scandito i suoi anni, quello della sua esperienza in seminario, quello del suo attivismo politico, sino ad arrivare all’attuale scelta di dedicarsi totalmente ala pratica della scrittura. In Lo sbrego l’esistenza di Moresco assume nuove prospettive, poiché osservata attraverso le lenti riflesse e dense di significato dei libri e degli autori che hanno solcato in maniera irreprensibile i suoi anni. Moresco cita una moltitudine di scrittori ai quali è visceralmente legato, a partire da Leopardi (“Portavo sempre con me, in una tasca, i Canti, in un’edizione Zanichelli del 1955”), per poi passare ai francesi Stendhal, Balzac, Proust, Céline, senza tralasciare Dostoevskij, Kafka, Beckett e soffermandosi con devozione quando passa ad analizzare l’Iliade di Omero: “Questo modo supremo di raccontare per fulminazioni e per urti e per abbandoni cruenti e immobilità e accelerazioni. Senza le semplificazioni narrative che hanno preso piede dopo e che ci sono già persino nell’Odissea. Il quadro immobile, dilatato e compresso, tutto attraversato dal dinamismo delle passioni, dei desideri e dei sogni. Il cozzo e la fusione e l’incontro delle materie corporee psicofisiche nella tragedia vivente dei corpi singoli separati”. Sarebbe impossibile fornire un quadro esaustivo dei testi sui quali Moresco si sofferma, si potrebbe citare La noia di Moravia, La vita agra di Bianciardi, La macchina mondiale di Volponi, Il male oscuro di Berto. È necessario sottolineare la presenza di alcune parti deboli del testo, messe lì quasi per dare spessore ad un volume nato, come specificato dall’autore nelle prime pagine, su richiesta, e quindi assemblato in un tempo ristretto. Nonostante questi limiti la scrittura di Moresco è riconoscibilissima, la sua prosa massimale e onnivora ha un fascino che a tratti incanta e ammalia, tenendo incollato il lettore al testo, sino alla fine, come pochi altri.

Zio Demostene (Effigie, 2005)
Lo zio Demostene, ritratto in copertina, disertore, comunista ed esule, con il suo volto scarnificato e tipizzato da un paio di baffi lucidi e ben leccati lungo l’estremità, assomiglia tremendamente al nipote scrittore, a quell’Antonio Moresco che ha violentato a tal punto la nostra immacolata prosa, che essa non potrà più rifarsi una verginità. Della somiglianza non solo fisica ma anche caratteriale tra zio e nipote se ne accorse ben presto la famiglia Moresco: “Però in casa ho sempre sentito parlare e raccontare dello zio Demostene, fin da quando ero piccolo. Era la pecora nera della famiglia e quando anch’io ho cominciato a dare i primi segni di deviazione, tutti mi dicevano per spaventarmi: “Sta’ attento! Farai la fine dello zio Demostene!” Oppure: “Vagabondo come tuo zio Demostene!” quando me ne sono andato via da Mantova e ho cominciato anch’io a fare il vagabondo da una città all’altra e a “rovinarmi con la politica”, e sono cominciati ad arrivare i processi, le denunce, l’arresto, e le notizie finivano anche sul giornale della mia città natale, dove vivevano ancora i miei genitori, e così lo sapevano tutti…”. In quest’ultima fatica letteraria di Antonio Moresco, Zio Demostene. Vita di randagi, edita da Effigie, si passano in rassegna le esistenze ai margini dei familiari più vicini allo scrittore mantovano. Non si rievoca e ricostruisce, quindi, solamente la vita dello zio Demostene, ma anche quella del nonno Antonio, autodidatta esaltato, del padre militare, reduce dalla guerra d’Africa e da un campo di prigionia in India, della madre, ragazza affamata in cerca di un posto da servetta, che bussa alla porta di una villa di nobili presso i quali resterà per tutta la vita, del cugino Ferdinando, abbandonato dalla madre naturale di fronte alla porta dei nonni ed emigrato in Brasile, e di altre vicende familiari accomunate da un destino di randagismo e di diaspora. Con questa rievocazione di un’epoca che non è più, Moresco aggiunge un ulteriore tassello alla costruzione della sua personale ricerca sul tempo narrato, che, a differenza della “Ricerca”di Proust, non si focalizza nel riavvolgere spasmodicamente le fila di un passato (anche se in “Zio Demostene” è il ricordo del passato ha strutturare il tutto) che percuote con ossessione le cervella, ma prende quello stesso tempo e lo fa esplodere, dilatandolo lungo la triade passato-presente-futuro. Essendo una narrazione intima di vicende personali, in lo “Zio Demostene” la scrittura espressionista moreschiana è messa da parte, con la prevalenza di un andamento stilistico più sincopato e meno debordante: “Finisce così questa piccola vicenda dello zio Demostene e di tutti gli altri. Anche loro, come mio padre, come i miei parenti, come me, randagi e reduci di guerre perse e di illusioni tradite. Come anche i nobili, in fondo. Altre cose non le so. Non ho fatto altre indagini per saperle, prima di mettermi a scrivere. Mi sono basato solo su testimonianze sentite direttamente o scritte, o frutto del passaparola tra le generazioni, che si sono fatte così ricordare, nello stesso modo in cui la memoria ha trovato la forma per ricordare e per ricordarsi e per testimoniare e per tramandare”. Un testo insolito questo di Moresco. Una sorta di raccolta di b-side, dove molto spesso riesci a catturare interpretazioni insolite della band che veneri, nell’attesa dell’album che spiazzi veramente. Fuor di metafora, nell’attesa della terza parte dei “Canti del caos”.

Merda e luce (Effigie, 2007)
Ecco il teatro di Antonio Moresco: un uomo e una donna nudi, sotto un cielo stellato, in una notte estiva, con uno spaccaossa a fare da leitmotiv ai loro discorsi sul senso del loro amore; Maria Callas, nel fulgore della sua forza vocale, alle prese con la progressiva prepotenza scenica della sua tenia; un siparista, in un monologo iroso e folle sul senso e sul valore del teatro, interrotto solo dalle incursioni sceniche di un motociclista e dal rigonfiamento improvviso di un cazzo; una partoriente che dialogo con la voce del proprio feto; sullo sfondo il sole, la luna e una meteora, sulla scena un unico attore che incarna, di volta in volta, famosi personaggi del passato, da Primo Levi ad Alessandro Magno, da Adolf Hitler allo stesso Antonio Moresco. Questi, in sintesi, i contenuti dei cinque testi teatrali che compongono Merda e luce, il nuovo libro dello scrittore mantovano, appena edito da Effigie. Nel suo teatro, come già dimostrato in “La santa”, i protagonisti abbandonano il proprio corpo per divenire tutt’uno con lo spazio e il tempo, in una sorta di totale fusione materica, all’interno della quale la parola teatrale riacquista tutta la sua radicalità e violenza, la sua fragilità e poesia.

di Rossano Astremo

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