Le ragazze che piangono in strada con il viso rivolto verso il muro perché il dolore che vuole a tutti i costi uscire fuori ha almeno la delicatezza di lasciare un po’ di volontà per una componente di imbarazzo verso il prossimo, così ci si fa scudo dell’amica che ci consola e non a caso ho usato il femminile perché l’uomo non sarebbe capace di interpretare né il ruolo della sensibilità indotta né quello della sensibilità offerta, non in pubblico ecco. Si soffre nel traffico dell’ora di punta, il vigile che coadiuva il meccanico alternarsi di segnali luminosi del semaforo, le bici arroganti sui marciapiedi per evitare le auto arroganti in strada. Intorno centinaia di vite che fanno a tempo solo a lasciare poco di sé, un istante di un percorso abituale o casuale da cui lanciare uno sguardo di compassione a chi la vita l’ha messa in sosta lì, i singhiozzi di schiena che hanno lo stesso significato delle quattro frecce nella corsia di emergenza: abbiamo un problema, ma non fermatevi nemmeno un secondo, ho già il mio carro attrezzi. Dietro l’angolo, così almeno si sfugge dal resto del gruppo che stanzia all’ingresso del liceo e con cui sarà necessario trascorrere il resto di una giornata che già è partita in salita, nemmeno un appiglio per drenare quella spremuta di ansia adolescenziale e indossare la maschera della neutralità quotidiana indispensabile a passare inosservata con i compagni di banco e con il professore della prima ora che noterà quelle chiazze rosse sul volto. Ma sono cose che capitano, nessuno ci fa caso se non noi che fuggiremmo piuttosto che ammettere un turbamento. E chi si ricorda più come funziona, se chi consola poi alla fine ha la meglio e tutto torna come prima o se si fa marcia indietro, si imbocca una strada a caso e si torna nella solitudine che nessuno aveva messo in programma, in un giorno feriale, con un vestito scelto a caso.