Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 120'
La trama (con parole mie): siamo nel 1921 a Ellis Island, ultimo bastione del controllo dell’immigrazione dei tempi sulla costa Est statunitense. Eva e sua sorella, venute dalla Polonia, sono separate in quanto la seconda risulta essere malata, mentre la prima, abbandonata dagli zii che si erano ripromessi di venire a prendere le giovani per offrire loro un alloggio ed un lavoro, viene approcciata dal losco Bruno, che si offre di aiutarla celando i suoi secondi fini, che prevedono lo sfruttamento della ragazza come prostituta.Il rapporto tra i due pare una continua lotta, e quando l’illusionista Orlando, cugino di Bruno, entra nell’equazione, la situazione si complica prima di precipitare: Bruno ed Eva saranno costretti a fare fronte comune e scoprire il significato di riscatto e perdono nella speranza di poter sopravvivere ad un tempo ed una città pronti ad inghiottirli.
James Gray, fin dai tempi dell’ottimo esordio Little Odessa, rappresenta non solo uno dei favoriti del Saloon, ma anche uno dei cantori più importanti dell’area di New York, allo stesso modo – con le dovute proporzioni – in cui lo furono prima di lui autori come Scorsese, soprattutto agli esordi – indimenticabili, a parte il celeberrimo cult Taxi driver, Mean streets ed il successivo Fuori orario -: con il dittico The Yards e I padroni della notte, poi, Gray dipinse un affresco durissimo e drammatico della provincia che ribolle oltre i confini della Grande Mela, prendendosi il tempo di scrivere una delle storie d’amore più devastanti del Cinema recente con Two lovers.C’era una volta a New York – adattamento pessimo dell’originale The immigrant – muove un passo indietro nel tempo per soffermarsi su una delle epoche più affascinanti che caratterizzarono la città che non dorme mai, la stessa di Capolavori come C’era una volta in America – che temo abbia giustificato la scelta dei titolisti nostrani – e dei grandi gangster movies ambientati ai tempi del proibizionismo: in bilico, però, tra crime story e romance, James Gray pare perdersi in quello che, nonostante l’indiscutibile perizia tecnica e resa a livello di immagine – la fotografia è senza dubbio splendida, così come la scelta delle inquadrature e la cura dei costumi -, rappresenta forse il suo primo, vero passo falso, un’incompiuta decisamente troppo lunga e verbosa nella prima parte e frettolosa nella seconda, paradossalmente la più riuscita.Considerando, infatti, un eventuale pressione dei distributori rispetto ad una versione iniziale decisamente più lunga, anche a distanza di qualche giorno dalla visione non riesco a capire e condividere la scelta del regista di proporre un introduzione inutilmente dettagliata e dilatata lasciando soltanto le briciole – ed un montaggio tagliato con l’accetta – alla conclusione, pronta a sfoderare gli acuti migliori – e gli unici – della pellicola – il tema del perdono e quello del riscatto, rappresentati dai due protagonisti, sono gestiti davvero alla grande, e lasciano senza dubbio il segno -, liberando al contempo le ottime prove di Joaquin Phoenix e Marion Cotillard, che seppur lontana dai fasti di Un sapore di ruggine ed ossa conferma il suo talento anche privata delle doti più “evidenti”.Meno in parte e convincente Jeremy Renner, che continuo a pensare dovrà ringraziare Kathryn Bigelow vita natural durante per averlo proposto in The hurt locker aprendogli le porte della ribalta internazionale nonostante doti decisamente nella media – se non inferiori – rispetto a suoi colleghi condannati ad un’attesa perenne di riconoscimenti prestigiosi – ne sa qualcosa Leonardo Di Caprio -.Un dramma a tinte fosche ed una storia di strada che incrociano la mitologia di Sergio Leone con quella del già citato Scorsese, senza per questo rinunciare a dettagli legati alla letteratura classica – assistiamo, di fatto, ad una versione adulta di una sorta di Oliver Twist al femminile – e alla poetica del regista – l’importanza della famiglia, le radici legate alla Fede, il peccato che lastrica la strada per la salvezza – senza però liberare il talento di Gray come altri suoi lavori, finendo per pesare sul pubblico e non avvincere nella misura in cui, probabilmente, lo stesso Gray avrebbe voluto.Un’occasione mancata, dunque, seppur con grande stile, ed un mezzo passo falso commesso da un regista dal quale, ormai, qui al Saloon ci si aspetta non solo molto, ma anche la definitiva ed assoluta consacrazione: e non bastano un paio di sequenze da urlo – l’inseguimento nei tunnel, la confessione di Eva ed il suo confronto finale con Bruno, il faccia a faccia decisivo tra quest’ultimo e Orlando – per definire un film epocale.C’era una volta in America è irripetibile.Anche per un newyorkese appassionato come Gray.
MrFord
"These vagabond shoes
are longing to stray
right through the very heart of it
New York, New York."Frank Sinatra - "New York, New York" -