C’era una volta a New York: a James Gray piace classico

Creato il 28 dicembre 2013 da Emeraldforest @EmeraldForest2

Uscita nelle sale italiane: 9 gennaio 2014

Reduce dalla selezione di Cannes 2013, C’era una volta a New York (in originale The Immigrant) è l’ultima fatica dell’eccellente regista newyorkese James Gray, che già si era fatto notare nei suoi precedenti film per l’innegabile bravura nel far rivivere e risplendere i generi classici americani. Anche stavolta ad accompagnarlo c’è l’immancabile Joaquin Phoenix (Bruno), attore di altissimo livello e di un estro difficilmente superabile, il quale si ritrova a duettare con una delle più brave attrici francesi e internazionali, Marion Cotillard, che nella sua interpretazione di Ewa si è probabilmente ispirata niente meno che al premio Oscar Meryl Streep in La scelta di Sophie.

C’era una volta a New York è una di quelle pellicole che provano a smitizzare il sogno americano, mettendoci davanti agli occhi le prospettive che mediamente una migrante straniera, senza particolare supporto familiare, si poteva ritrovare innanzi, al posto dell’american dream tanto desiderato in patria: si tratta di un vero e proprio affresco di grande realismo, ma al tempo stesso James Gray riesce a mediare con l’ideale, il mito e i generi dell’epoca (romance, gangster, thriller) grazie ad alcune sfumature melò che lo impreziosiscono ancora di più.

Possiamo affermare tranquillamente che, una volta tanto, il titolo italiano del film, non sia troppo fuori luogo dato che mette in evidenza la componente visiva indissolubilmente newyorkese della pellicola e della storia: Ellis Island è il temutissimo limbo attraverso cui sono realmente dovuti passare milioni di migranti, nella speranza di superare una “prova” dopo l’altra, da quella della salute a quella della parentela già presente in suolo americano: il pericolo del ritorno forzato in patria era sempre presente ed è la spada di damocle che sentiamo profondamente in tutto il corso di C’era una volta a New York, in particolare per Magda, la povera sorella malata di Ewa.

Possiamo affermare tranquillamente che, una volta tanto, il titolo italiano del film, non sia troppo fuori luogo dato che mette in evidenza la componente visiva indissolubilmente newyorkese della pellicola e della storia: Ellis Island, isola nei pressi di Manhattan, è il temutissimo limbo attraverso cui sono realmente dovuti passare milioni di migranti, nella speranza di superare una “prova” dopo l’altra, da quella della salute a quella della parentela già presente in suolo americano: il pericolo del ritorno forzato in patria era sempre presente ed è la spada di damocle che sentiamo profondamente in tutto il corso di C’era una volta a New York, in particolare per Magda, la povera sorella malata di Ewa. Poi c’è il Lower East Side con i suoi localini poco raccomandabili e Central Park, dove l’allibratore Bruno fa “rifugiare” le sue ragazze proponendole come figlie di un ricco magnate decaduto: New York è a tutti gli effetti una componente emotiva così importante nel film che se ne respira appunto ovunque la aria di potenziale mitica libertà, la quale stride in modo così dolente con i compromessi che invece la realtà sociale dell’epoca sembra portare inevitabilmente con sé.

Nonostante sia la prima volta che questo regista scrive un ruolo da protagonista per una donna, notiamo tutta la delicatezza e le sfumature nel personaggio di Ewa, la quale arriva a New York con tutte le sue ferme certezze e ne esce con una lezione di vita che non potrà che cambiarla profondamente, in particolare a proposito di Bruno/Phoenix, una persona per nulla per bene e che la sfrutta, ma che sembra l’unica che possa essere in grado al tempo stesso di aiutarla e salvarla, seppure nel modo più compromettente e infamante possibile. Il compromesso è il cuore palpitante delle tematiche di C’era una volta a New York, nonchè la presa di consapevolezza che, al contrario, tutto ciò che sembra una strada facile e miracolosa sia invece una sorta di magia illusoria che poco ha a che vedere con la realtà (come appunto gli spettacoli e le promesse di Orlando/Jeremy Renner). Ewa smette di credere ai miracoli e alla severa ripartizione tra persone malvagie e buone, come il suo background religioso invece le aveva insegnato.

C’era una volta a New York è, nonostante il budget non elevato per gli standard americani, uno dei film in costume più curati degli ultimi anni: bellissima ed evocativa fotografia (Darius Khondji), scenografie, ambientazioni, costumi sono praticamente impeccabili e l’effetto è quello di essere catapultati direttamente dentro gli anni 20, durante i quali il film è ambientato, gli stessi anni della giovenezza di Noodles nel capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America.

C’era una volta a New York è un film che ha in sé una decisa componente di classicità, che però non intende ostentare, ma al contrario valorizzare come mezzo espressivo e comunicativo cinematograficamente universale, atto a raccontare una storia-paradigma di presa di coscienza altrettanto universale.



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