Dramma deboluccio del regista di Two Lovers, C’era una volta a New York è un classico melò d’epoca che non riesce a coinvolgere pienamente e che si lascia trasportare dalla reiterazione di intenti e frasi. Un gioco di sguardi e di necessità reciproca, che perde progressivamente di interesse.
New York, anni ’20. Ewa sbarca a Ellis Island in compagnia della sorella Magda. Quest’ultima, accusata di soffrire di tubercolosi (e di conseguenza messa in quarantena), viene separata dalla sorella, che viene avvicinata da un imbonitore/magnaccia, che vive raccogliendo ragazze sprovvedute e con problemi d’immigrazione. Da quel momento Ewa entra in un giro di prostituzione.
Pellicola che si apre sulle fotografie degli immigrati sbarcati a Ellis Island, C’era una volta a New York ribadisce l’interesse del regista (di origini russe) James Gray di occuparsi di due figure prive di patria e di radici, mettendo in scena una lenta narrazione in divenire, che mette in evidenza nervi scoperti. Il nucleo familiare al centro di tutto: gabbia, affetto e costrizione. Difatti il legame che lega le due sorelle (Ewa e Magda) è talmente forte da portare la prima a cercare di salvare la seconda entrando in un giro di prostituzione, che porta con sé dolore e frustrazione, aspetti perfettamente in linea con il genere melodrammatico. E non solo: Gray spreme ancora di più il genere cinematografico e infarcisce la sua pellicola di altri stilemi classici, come il giudizio della società, i tradimenti degli affetti e le ingiustizie subite. Tutto ciò porta ad affermare che C’era una volta a New York sia un prodotto convenzionale, che segue binari prestabiliti, ad eccezione di quell’altalenante (e progressivo) spostamento della macchina da presa in direzione di Joaquin Phoenix. Difatti se dapprima la protagonista è indubbiamente Marion Cotillard, in modo quasi impercettibile Gray sposta il suo punto di vista su Phoenix, uomo dominato da sentimenti incontrollabili per i quali perde tutto quello che ha raggiunto con fatica prevaricatrice. E non indugiando eccessivamente sul dolore e la vessazione del personaggio, Gray preferisce focalizzarsi sul percorso che lo porta a diventare un salvatore, pur peggiorando la sua vita e il suo status sociale.
Contrappuntato da una fotografia seppia e da pieghe storiche puntuali, C’era una volta a New York esibisce colpa e peccato, sacro e profano, moralità e amoralità. Ed è su questi sostantivi che si costruisce la pellicola diretta da Gray, che gioca con gli sguardi dei due protagonisti, che applica la morale (religiosa) senza pregiudizi e sottolinea l’espiazione della colpa (la bellezza può essere una colpa?) di Ewa.
Nonostante ciò C’era una volta a New York indugia eccessivamente senza mai raggiungere un vero e proprio punto di interesse. Non bastano le splendide interpretazioni di Marion Cottilard e Joaquin Phoenix a risollevare le sorti di un film, che si perde nelle pieghe storiche di una rievocazione personale, che fatica a tradursi compiutamente sullo schermo cinematografico.
Uscita al cinema: 16 gennaio 2014
Voto: **