C’era una volta il grande cinema italiano #4 – Riso amaro

Creato il 05 giugno 2011 da Fabry2010


Su questa pellicola del 1949 sono stati versati fiumi d’inchiostro e torrenti di polemiche. Come Miracolo a Milano, fu attaccata sia da destra che da sinistra. Da un lato le voci catto-padronali la censuravano per aver sollevato i temi dell’emancipazione femminile e dell’aborto, dall’altro personaggi come Davide Lajolo, al tempo direttore de L’Unità, la accusavano di aver falsato il mondo contadino. Pensare che era stato proprio Lajolo a presentare al regista De Santis un certo Raf Vallone, cronista di terza pagina e autore di un dossier sulle condizioni lavorative delle mondine. Evidentemente le sirene del mondo del cinema agirono sul buon Raf Vallone più potentemente del giornalismo d’inchiesta.
Specie nei confronti delle accuse da sinistra, De Santis si difendeva così:
In Riso amaro, io mischio continuamente cultura bassa e cultura alta, i canti popolari e la musica di Petrassi, l’aborto spontaneo in risaia ed il boogie-woogie. La contaminazione tra i generi è a mio giudizio la chiave del mio cinema […]. Nel costruire il racconto abbiamo cercato di metterci al livello del mondo culturale popolare, non di fare l’intellettuale che guarda le mondine […]. Alcuni sindacalisti protestarono dicendo che sull’aia le mondine non ballavano il boogie-woogie ma il valzer, che non leggevano solo il Grand Hotel e che io le trattavo come prostitute […]. La cultura delle mondariso era quella che io descrivevo nel mio film, quella del chewing-gum, dei fumetti, delle riviste; io non potevo pormi al di sopra di queste caratteristiche e raffigurare le mondine in modo differente o falso, non avrebbe avuto senso […].
In effetti alcune idee, come la contaminazione dei generi, erano per l’epoca fantascienza, come del resto l’uso della “presa diretta”, particolarmente efficace nei casi dei canti delle mondine.
E’ certo che l’intuizione di De Santis fu felice nell’indicare che le istanze sociali di emancipazione spesso si accompagnavano al desiderio di rompere con lo stile della donna angelo del focolare che si cercava di imporre.
E’ Il tema dell’ambivalenza, per cui alcuni qui hanno usato il termine di “neorealismo popolare”, per cui la risaia può diventare scenario sia della favola che della tragedia. La vicenda stessa si colora anche di toni noir, per cui il film raggiunge forse i più alti risultati tecnico-formali nel personaggio di Walter (interpretato da Vittorio Gassman), spietato e cinico criminale ben inserito nelle atmosfere che sembrano quelle western dei duelli. Oltre che nella sensualità aggressiva, quanto aggredita, di Silvana Mangano, come un calcio nei denti a quello stereotipo dell’angelo del focolare.
Certo nel film si affacciano i falsi miti delle prime spinte consumistiche verso l’agognato (all’epoca) stile di vita americano, ma sul gioco lungo direi che è passato alla storia per aver portato alla luce temi di cui non si poteva parlare, come l’aborto. In occasione del restauro del film, nel 1999, sul Corriere della Sera è comparsa un’intervista ad una delle figuranti, Rita Botto, 43 anni passati nelle risaie.
“L’aborto in risaia era una realtà abbastanza frequente – ricorda Rita -. Far la mondina e’ un lavoro pesantissimo, se non si comincia da giovani, non lo si regge. Otto ore al giorno con le gambe nude che affondano nel fango, sotto il sole o la pioggia. La schiena va a pezzi. Se scoprivano che eri incinta ti cacciavano. E allora tante si stringevano il ventre con delle fasce per nascondere il più possibile la gravidanza, altre abortivano per non perdere il posto. E noi le aiutavamo, di nascosto, lì nei campi. Proprio come nel film”. Un film che per loro fu una festa e un’ occasione di rimpinguare l’ esiguo salario. “Per 8 ore in risaia ricevevamo mille lire alla sera, mentre per un paio d’ ore a far finta di lavorare ne prendevamo 150″.
La rappresentazione dell’aborto nel film è una delle scene corali di maggiore impatto emotivo.
Il montaggio alternato mostra che l’evento avviene quasi contemporaneamente allo stupro subito da Silvana per opera di Walter.
A fare da sottofondo, sotto una pioggia incessante, sono i canti delle mondine che fanno da coro alla disgrazia della ragazza. Le donne della risaia diventano come commilitoni pronti ad aiutare la Gabriella ferita da un amore clandestino e raccontano cosa sta accadendo alle altre donne: «La Gabriella ti manda a dire che l’è tutta insanguinata[…]».La soccorrono e la proteggono diventando, visivamente, quasi un unicum con la terra madre, coprono le sue urla e la consolano con il canto, sotto una pioggia di disperazione. Il corpo della ragazza, con un’inquadratura dall’alto, è sottratto alla vista dello spettatore dalle donne che le si assiepano intorno e celano quello che sta accadendo.
Quando si rivede la ragazza è tutto finito, lei è svenuta e la sua compagna Francesca la solleverà tra le braccia, in un’immagine che ricorda le scene di rappresentazione classica della deposizione del Cristo morto. Si chiude con la telecamera che segue la lunga processione di donne sofferenti, schiave della risaia e svuotate, in nome di un giorno di paga in più, della possibilità di scegliere di diventare genitrici.
Ed è per questo respiro lirico, non certo per il boogie-woogie in risaia, che il film è passato alla storia.



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