Veramente Zavattini aveva già collaborato con De Sica, sia pur in maniera non ufficiale, in Teresa Venerdì, ma è con quest’opera che gli viene data occasione di esprimersi e di compiere la rottura definitiva col mondo del cinema di regime dei telefoni bianchi, mettendone in ridicolo i cliché e denunciando la perdita dei valori morali del mondo borghese.
Il titolo del film si deve sempre a Zavattini, che già sul finire degli anni ’30 teneva una rubrica su Grazia dal titolo “I nostri bambini ci guardano” in cui l’ intento era dichiarato “[…] Ricordatevi, qui non si tratta di insegnare ai fanciulli come devono comportarsi, bensì come voi dovete comportarvi davanti ai fanciulli”.
Il film affronta la dolorosa crescita del piccolo protagonista, il cui appellativo è già indizio di futura sofferenza: il nome “Pricò” era il diminutivo francesizzato di “precoce”. Uno dei pregi maggiori è dato dal fatto di essere girato ad “altezza bambino”, quasi tutto in esterni, secondo i canoni del nascente neorealismo.
All’inizio della storia, Pricò, anche se non ne è cosciente, è un bambino fortunato. Possiede molti giocattoli, può andare al cinema, ha una governante, una camera tutta sua con tanto di gabbia del canarino, il papà gli vuole bene e la mamma è premurosa ed affettuosa.
Ma ecco che qualcosa nel suo mondo, isola felice di certezze, si incrina. Il suo processo di crescita inizia per caso, tramite uno sguardo innocente. Mentre è al parco a giocare, alza gli occhi e scorge Nina intenta a parlare con il suo amante, Roberto.
La casualità di quello sguardo è fortemente voluta dal regista. De Sica, come Rossellini, ha una concezione antropocentrica del cinema: per lui il senso si va costruendo anche grazie all’incontro casuale dei personaggi con elementi dello spazio che acquistano agli occhi dello spettatore significati multipli ed aperti. L’alea, il caso, l’imprevisto, giocano un ruolo fondamentale nel suo lavoro registico, peraltro rigoroso e rispettoso delle regole del racconto.
Lo spettatore vede il volto sorridente del bimbo diventare serio e spetta alla soggettiva svelarne il motivo: in campo lungo si vedono i due amanti parlare. Stanno concertando la loro fuga a Genova. Pricò intuisce qualcosa e preoccupato và a “riprendersi” la mamma.
L’ingresso nella vita famigliare è simboleggiato spazialmente dal corridoio dell’appartamento romano sito all’ottavo piano dei nuovi complessi residenziali, dove la famiglia del protagonista. Da quel corridoio, Pricò ci conduce all’interno di un rapporto di coppia disgregato, quello dei genitori Nina ed Andrea, dove regnano i silenzi e l’ostinazione nel non voler vedere la fine degli affetti.
La madre tornerà poi dal figlio malato che farà di tutto per trattenerla e farle “togliere il cappello” ed il marito, ancora innamorato, la riaccoglie. Il bambino cercherà in tutti i modi di preservare la ritrovata unità e la madre tenterà di soffocare il sentimento per l’amante Roberto, ma inutilmente.
In vacanza in Liguria, con il bambino, la madre approfitta della situazione per ritornare con l’amante, mentre a Pricò non resta che gironzolare tra le cucine della pensione Miramare in cerca di un po’ di gelato.
Lo sviluppo anticipa episodi tipici della tradizione del bildungsroman (per esempio “Agostino” di Alberto Moravia). Durante il suo annoiato vagabondare, il piccolo Pricò vede la madre amoreggiare sulla spiaggia con il suo amante. La sequenza ha una forte drammaticità.
In campo lungo il registra ci mostra la disperata corsa del piccolo. Il velo di Maja si è squarciato ed il mondo del bambino và in frantumi. Il peso di quello che ha visto lo annienta. Nel tradimento materno ravvede la fine della sua famiglia, del suo mondo di bambino. Il piccolo Pricò cerca la fuga, cerca di tornare a Roma, da quel padre che li ama ma che non ha saputo trovare il modo di tenere unita la sua famiglia. Saranno i carabinieri a riportarlo dalla madre.
Tornati a Roma, arriva l’abbandono definitivo, sancito dalla lettura di un telegramma di Nina, accartocciato da un annientato Andrea a cui fa da sottofondo musicale in un contraltare immagine-suono l’allegro trio Lescano con “Maramao perché sei morto?”
L’unica a mantenere uno spirito pragmatico è la governante Agnese, che dice al ragioniere che il bimbo può crescerlo lei e che lo possono tenere a casa.
Ma Andrea non ce la fa, ed ecco l’ennesimo abbandono. Tolti i calzoni corti ed indossata una divisa simil militare, Pricò và in un collegio religioso, dove viene letteralmente abbandonato dal padre che fugge dal figlio correndo via dall’istituto senza voltarsi al richiamo accorato del piccolo.
Anche qui lo spazio gioca un ruolo fondamentale. Il bambino viene quasi inghiottito dai soffitti alti e dallo spazio enorme dell’architettura marmorea. Anche gli ambienti sembrano voler sottolineare l’indifferenza al suo dramma.
Nel tragico epilogo al bambino viene comunicato il suicidio del padre, quasi fuori scena: la sua innocenza è ormai persa insieme al senso della famiglia, la disgregazione totale di quella che doveva essere un’oasi di affetti, dove trovare protezione e valori. Il sigillo finale è dato dal rifiuto nei confronti della madre. Pricò non l’abbraccerà e lei rimane immobile, mentre il figlio và via di spalle, in silenzio, in un campo lungo che sembra inghiottirlo nello spazio enorme dell’atrio del collegio, così diverso dal corridoio di casa, punto di partenza del suo viaggio di crescita nel dolore.
Un modo certo dirompente per l’epoca di trattare il tema del passaggio doloroso all’età adulta, che sarà poi ripreso successivamente, non solo nel cinema, in infinite varianti.
C’era una volta il grande cinema italiano #5 – I bambini ci guardano
Creato il 19 giugno 2011 da Fabry2010Potrebbero interessarti anche :
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