C’erano una volta gli zingari… suona suona per me, o violino tzigano

Creato il 16 aprile 2015 da Federbernardini53 @FedeBernardini

Mi pare opportuno riproporre questo mio articolo di quasi tre anni fa, avendo ancora negli orecchi l’eco delle polemiche suscitate dall’uso della parola “Zingari” da parte di Matteo Salvini. Polemiche che io non condivido, ritenendo pienamente corretto l’uso di quella parola, così come, peraltro, non condivido la maggior parte delle esternazioni estremiste di Salvini, rivolte alla pancia e non al cervello degli elettori di destra.

Semplicemente per avergli riconosciuto il diritto a una scelta lessicale che è anche la mia, nell’articolo che segue, e può essere usata senza alcuna accezione negativa… i processi alle intenzioni non le fanno né Facebook né i tribunali, sono stato accusato di essere un sostenitore della più becera propaganda leghista e qualcuno, dopo avermi coperto di insulti, è arrivato al punto di voltarmi le spalle.

Atteggiamenti come questi sono di una irrazionalità e di una violenza pari alle peggiori esternazioni di Salvini e dei suoi sodali e dimostrano che quando si affronta un problema avvalendosi di luoghi comuni e di partiti presi, di qualunque segno, il problema non si risolve, ma lo si fa incancrenire.

Quella degli Zingari è una questione seria e di difficile soluzione e va affrontata con fredda razionalità, bandendo sia le farneticazioni xenofobe che il buonismo e il politicamente corretto d’accatto.

“C’erano una volta gli Zingari, dalla pelle ambrata, i capelli corvini e gli occhi neri dallo sguardo profondo e misterioso, occhi nei quali potevi vedere riflesse tutte le strade del mondo.

Arrivavano all’improvviso, come se venissero da un altro pianeta o da un altro tempo, coi loro carrozzoni trainati dai cavalli, e si accampavano alla periferia delle nostre città e dei nostri paesi.

Erano diversi. Gli uomini, dallo sguardo torvo, portavano l’orecchino, come i pirati di cui avevamo letto nei romanzi di Salgari, e le donne, dai fianchi generosi, facevano ondeggiare le loro lunghe ed ampie gonne dai colori incredibili, circondate da frotte di fanciulli dagli occhi ridenti.

Quando entravano nei paesi, le mamme stringevano a sé i loro figli e li guardavano con sospetto perché, si diceva, gli Zingari rubano i bambini (non è mai stato vero, non fa parte della loro cultura… e di figli ne hanno anche troppi; sono i Gagè che rubano i bambini, e per gli scopi più turpi).

Ma erano loro a portare le pentole di rame agli esperti calderai, perché le riparassero, mentre i loro uomini, con fare levantino, contrattavano la vendita o l’acquisto dei cavalli.

A sera, quando gli Zingari tornavano al campo, si raccoglievano attorno al fuoco del bivacco e si levavano le note struggenti dei loro violini, che accompagnavano danze antiche ed esotiche, che univano i ritmi dell’India, della Boemia, dei Balcani.

Poi, all’improvviso, così com’erano venuti, levavano il campo e se n’andavano.

Oggi, le ruote dei loro carri non cigolano più lungo gli antichi e polverosi sentieri. Le roulottes e i camper arrivano alla spicciolata, e le loro ruote affondano per mesi, per anni, nel fango di luridi campi, sempre più affollati, sempre più stanziali e sempre più intollerabili, sia per loro che per noi.

E non ci sono più le pentole da riparare. Il rame gli Zingari lo vanno a rubare ai Gagè, per rivenderlo ad altri Gagè. Non ci sono più neanche i cavalli e allora si rubano le automobili e si svaligiano le case.

Le donne, dai fianchi generosi, non fanno più danzare le loro lunghe ed ampie gonne dai colori incredibili. Sono vestite di cenci dai colori sbiaditi e i loro figli non hanno più gli occhi ridenti… e come potrebbero, quando sono costretti a mendicare per le strade delle nostre città.

Anche i loro violini, ormai, si prostituiscono al suono di improbabili pot-pourri ad uso e consumo delle onnivore comitive di turisti che affollano le trattorie, dove si servono i più orribili intrugli, spacciandoli per piatti tipici.

Ciò che rimane è la diversità, la diffidenza nei confronti di un popolo che rimane un corpo estraneo alla nostra società, con la differenza che mentre un tempo, quando ancora esistevano gli antichi mestieri e gli Zingari erano nomadi a tutti gli effetti, una sorta di convivenza era ancora possibile.

Oggi non più. Gli Zingari rappresentano un problema grave, sia a causa della loro incapacità di adeguarsi ai nostri costumi e delle loro pratiche illegali, sia a causa della nostra ancestrale avversione nei loro confronti.

La soluzione del problema, almeno in Italia, dove i problemi siamo più bravi a crearli che a risolverli, è difficile o addirittura impossibile fino a quando non lo affronteremo in modo diverso, senza l’atteggiamento rozzo e intollerante di chi vorrebbe semplicemente rispedirli in Romania… o non importa dove, e senza quel buonismo ipocrita e piagnucoloso o quella carità pelosa che contraddistingue certe associazioni che, con la scusa di favorirne l’integrazione, fanno in realtà soltanto i loro sporchi interessi, lasciando incancrenire la piaga.

Occorrerebbero una razionalità, un’onestà, un rispetto e una pazienza (ci vorrebbero generazioni) di cui forse non siamo capaci per costruire un progetto di integrazione che non si risolva in un genocidio culturale ma porti finalmente gli Zingari nel XXI secolo senza umiliare la loro dignità e senza che debbano rinunciare alla ricchezza della loro cultura e delle loro tradizioni. Tutto ciò, ovviamente, con un impegno reciproco.

A me piace ricordarli com’erano un tempo o, forse, pensarli come non sono mai stati… solo una suggestione estetica, una reminiscenza letteraria. Quanto sarebbe bello poter danzare una danza forsennata con una Zingara dai fianchi generosi, dai capelli sciolti e gli occhi accesi dalle faville del fuoco del bivacco… al suono di un violino tzigano.”

Federico Bernardini

Illustrazione: “Giovane zingara” (William-Adolphe Bouguereau, 1879)


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