C’erano una volta i Paesi emergenti

Creato il 28 marzo 2014 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

A partire dal 2008, complice la crisi che stava per mettere al tappeto le economie piú avanzate, i Paesi emergenti sono diventati i nuovi cavalli su cui gli analisti scommettevano come nuova locomotiva della crescita globale. Si diceva che questi Paesi — coi BRICS a fare da alfieri — si sarebbero presto trasformati nel serbatoio della domandamondiale, fino a gareggiare coi tradizionali mercati di sbocco. I fatti hanno smentito tali previsioni. La crisi dei Paesi emergentidoveva esserci, ed è arrivata nelle ultime settimane. Dapprima sono finiti al centro della bufera IndiaTurchia e Argentina; poi è stato il turno di Brasile e Sudafrica — senza dimenticare la crisi politica in corso in Ucraina in una pericolosa spirale che rischia di trascinare altre economie, aggravando la congiuntura globale. La crisi degli emergenti va analizzata sotto un duplice profilo. Essa, da un lato, ha una dimensione finanziaria che, seppur in misura diversa, coinvolge tutti i Paesi in questione; dall’altro, ha una dimensionepolitica, che interessa ciascuno per ragioni diverse. In questa prima parte, ci occuperemo dei problemi finanziari.

Facciamo un salto indietro d’un anno. Il 23 maggio 2013, Manuel Sánchez, vicegovernatore della Banca del Messico, dichiarò che i Paesi emergenti avrebbero pagato un prezzo molto alto a causa delle politiche accomodanti messe in campo dalle banche centrali delle economie piú ricche (in particolare la Fed) per sostenere gli esausti mercati interni nei rispettivi Paesi. Il riferimento era ovviamente al terzo quantitative easing (QE), il piano che prevedeva l’acquisto di titoli sul mercato per un ammontare complessivo di 85 miliardi di dollari al mese. Con lo stimolo monetario, alle immissioni di liquidità è corrisposto un incremento dei flussi di capitale verso i Paesi in via di sviluppo, il quale ha «gonfiato» il prezzo dei titoli e degli altri asset finanziari, allontanando cosí le quotazioni dal loro valore equo.

Il giorno prima del discorso di Sánchez, il governatore della Fed Bernanke disse al Federal Open Market Committee che avrebbe potuto considerare una riduzione del ritmo degli acquisti: il cosiddetto tapering. Apriti cielo: l’annuncio fece crollare gl’indici dei mercati azionari e obbligazionari sia nelle economie avanzate sia in quelle emergenti. La Fed cercava una «strategia d’uscita» dal suo terzo QE, e da qualche tempo s’ipotizzava che ciò avrebbe avuto un effetto diretto sui mercati emergenti. Ci vollero alcuni giorni prima che i mercati metabolizzassero la notizia, quando, ai primi di luglio, FedBCE e Banca d’Inghilterra annunciarono che la politica accomodante sarebbe proseguita fino a quando necessario. Ed erano solo le prime avvisaglie.

Tecnicamente, coll’attesa della fine del QE, i rendimenti dei titoli decennali statunitensi dovrebbero portarsi al 3% e poi al 4%, mentre qualche tempo fa erano intorno al 1,5%. Quelli dei Paesi emergenti sono intorno al 5%. Il «premio per il rischio», pari alla differenza tra i rendimenti delle economie periferiche e quelli delle economie piú avanzate, era perciò pari al 3,5%. Se i rendimenti dei Treasury bond decennali andranno al 4%, lo stesso premio per il rischio porterà i titoli degli emergenti al 7,5%. L’aspettativa d’un rialzo dei rendimenti negli Stati Uniti spinge perciò al rialzo anche quelli in tutti i Paesi periferici.Salendo il rendimento delle obbligazioni, i loro prezzi s’abbassano (posto che le cedole sono fisse). Coi rendimenti, sale anche il fattore di sconto delle azioni. Gl’investitori, allora, riducono la propria esposizione in attività finanziarie dei Paesi periferici, per tornare ad acquistare quelle dei Paesi centrali; cosí facendo, spingono al ribasso anche il tasso di cambio. Oggi gli emergenti hanno gran parte delle proprie riserve valutarie denominate in dollari, e il tapering della Fed non farà altro che colpire la liquidità delle rispettive banche centrali. Le quali si troveranno presto (e già si trovano) a dover pagare in moneta svalutata i crediti denominati in valute forti con le banche centrali dei Paesi piú avanzati.

Si potrebbe obiettare che il capitale è globale, e che l’esperienza internazionale conferma che gl’incrementi/decrementi negli afflussi di capitale possono sí portare a un periodo di crisi, ma non per questo vengono minate le fondamenta d’un sistema. Nel caso dei mercati emergenti, tuttavia, questo rischio c’è. A parte il corso dei mercati, che in questo momento sono chiaramente sopravvalutati, il vero problema sono i fondamentali macroeconomici dei mercati emergenti, che l’iniezione di capitali e gli elevati tassi di crescita non hanno affatto migliorato. Anzi, i numeri parlano addirittura d’un lorodeterioramento. Colpa della crescente debolezza della domanda domestica e della forte esposizione al dollaro statunitense.

Fino a ieri, i Paesi emergenti sono stati celebrati quando si pensava che la loro crescita fosse ormai diventata «autonoma», cioè trainata piú dai consumi domestici e dalle esportazioni verso gli altri Paesi emergenti che non dai tradizionali legami con le economie del Primo Mondo. I fatti dimostrano il contrario. È vero che la quota d’investimenti diretti esteri tra Paesi in via di sviluppo è in aumento, con CinaIndia e Brasile a fare la parte del leone. Tuttavia, la schizofrenia con cui le economie periferiche stanno reagendo alla prospettiva di chiusura dei rubinetti da parte di quelle centrali è emblematica della persistente dipendenza delle prime dalle seconde, tanto da rappresentare una riedizione dei vecchi paradigmi del colonialismo.

C’è poi un punto che vale la pena esaminare. Negli anni di crisi, si consiglia sempre d’investire nei Paesi emergenti poiché caratterizzati da forte crescita. Nella vulgata finanziaria, cioè, s’insiste nella relazione tra crescita dell’economia e crescita della borsa. Maggiore l’ascesa del PIL, si ripete, maggiore sarà quella dei corsi. Invece, l’andamento dell’indice azionario dei Paesi emergenti degli ultimi vent’anni dimostra che chi ha investito in questi mercati ha perso in termini relativi, nonostante la crescita del PIL. L’ascesa delle borse dipende dalla qualità dei risultati delle imprese quotate, non dalla crescita economica d’un Paese.

La prima fase di normalizzazione della politica monetaria da parte della Fed sta mettendo in luce tali contraddizioni, assieme a tutti gli squilibri macroeconomici di queste aree.

* Articolo originariamente comparso su The Fielder