C’eravamo tanto amati – Ettore Scola, 1974

Creato il 08 ottobre 2014 da Paolo_ottomano @cinemastino

C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974): cambia il regista, c’è un’attenzione maggiore sui contenuti politici e sull’evoluzione della società, ma un punto fondamentale rimane comune a Romanzo popolare: la nostalgia. Il film è infatti una carrellata sulla storia italiana che si mischia alle vicende personali di tre uomini, Gianni (Vittorio Gassman), Antonio (Nino Manfredi) e Nicola (Ste­fano Satta Flores), tutti innamorati, a turno e per tutta la vita, della stessa donna: Luciana (Stefania Sandrelli). Anche questa storia è raccontata in flashback e anche in questo romanzo i personaggi tracciano un bilancio gene­razionale, rendendosi conto anch’essi che volevano cambiare il mondo ma è stato il mondo a cambiare loro, parafrasando una battuta di Nicola: il senso del film. Anche in questo caso l’incipit è la parte di una rimonta, una semina che dà i suoi frutti proprio nella scena finale del film e chiude un percorso cir­colare

Le voci narranti si alternano spesso, talvolta interpellando il pubblico, tal­volta trasformandosi in degli a parte quando in scena c’è l’aspirante attrice Lu­ciana. Pochi tratti bastano a definire inequivocabilmente i personaggi. L’arrivismo di Gianni, inizialmente mascherato da grinta e voglia di migliorare, ma è chiaro dove finirà quando accetta il primo lavoro tramite raccomanda­zione. La generosità, la pazienza e l’umiltà di Antonio, così buffo e fuori luogo quando perde la pazienza, espresse al massimo grado nell’esito della sua vi­cenda. L’idealismo a tutti i costi di Nicola, tale che quando la moglie gli dice «Nicola devi scegliere, o gli ideali o la famiglia», lui chiede asilo proprio ad Antonio; tale che egli rivendica la superiorità dell’intellettuale sull’uomo co­mune ma «Guai a darmi ragione!». «E chi te la dà!», gli risponde prontamente Antonio in romanesco. Infine, le ambizioni un po’ velleitarie di Luciana, la sua perenne indecisione sentimentale e fragilità emotiva, anch’essa evidente dalle tre storie d’amore vissute.

Gli umori dei protagonisti riempiono le immagini e le arricchiscono di senso anche quando non sono mostrati o intuiti ma esposti dalla voce narrante. E non è facile evitare lo stucchevole o il ridondante, rac­contando qualcosa dall’esterno: si rischia di apparire didascalici, invadenti, e gli spettatori più permalosi potrebbero sentirsi presi per degli ingenui, cui bisogna spiegare ogni virgola. Ma non è questo il caso, perché il racconto orale non ri­pete ciò che le immagini mostrano. Lo commenta ma con discrezione, senza imporsi, tanto da sembrare l’unica soluzione possibile; oppure è necessario per svelare dei dettagli che non sono (ancora) evidenti. Il rischio è puntualmente evitato perché si trova sempre il modo di fondere malinconia, commedia e tragedia nella stessa sequenza, nella stessa scena, nella stessa battuta: nello stesso sguardo, come quello di Antonio di fronte alla dichiarazione d’amore di Gianni per Luciana; come in quello di Gianni, venticinque anni dopo, quando Antonio – certo più povero di lui – lo scambia per un parcheggiatore abusivo, stranamente vestito di tutto punto, e costretto ad accettare qualche spicciolo perché non ha il coraggio di essere sincero. Come nello scambio di battute tra Nicola e il suo preside, dopo la fine della proiezione di Ladri di biciclette. Questa sequenza è un capolavoro specialmente per la sua lungimiranza, per la sua ca­pacità di essere attuale in un momento qualsiasi della storia italiana del Nove­cento. «Questi stracci e questi cessi ci diffamano di fronte al mondo», dice in­fatti il preside indignato, ma questa frase è uscita da parecchie bocche illustri. Lo diceva Andreotti che «i panni sporchi si lavano in famiglia» a proposito di Vittorio De Sica e Umberto D; l’ha ripetuto Silvio Berlusconi a proposito di Roberto Saviano e di Gomorra, a dimostrazione che la Commedia all’italiana ha sì preso la sua linfa dalla società, ma quest’ultima ha ripetuto e attualizzato a propria volta le storie grottesche che sono state raccontate. Asfissiando però la comicità nella cappa del grottesco, rendendoci consci di quanto ci appar­tenga.


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