Bob Dylan ha 70 anni, ma almeno da 15 anni lo evito. Lo seguivo fin da Like a Rolling Stone, quando mio zio (chitarra solista) provava cover su cover in uno scantinato insieme a quattro suoi amici (era il 1966-67, avevo una decina d’anni e loro erano i Pepitas, incisero pure due o tre 45 giri).Ogni tanto, molto raramente, ascolto ancora qualche sua vecchia ballata, cantata mille volte da ragazzo (sempre in un inglese molto approssimativo), come devo dire che non mi dispiacque affatto quella sua svolta elettrica dopo l’incidente stradale (si nasce Woody Guthrie, si può morire Iggy Pop), né penso gli abbia fatto male lo sprofondo nella fede, anzi, mi sembrò subito – e oggi confermo – che con quel suo cristianesimo da strada avesse preso una piega stralunata assai interessante.La sua voce riuscì a rendermi piacevole anche quella rilettura nevrastenica delle sue canzoni più note che irritò mezzo mondo tra gli ’80 e i ’90, ma poi, nel 1997, arrivò il ricovero per quella pericardite da Histoplasma capsulatum, microrganismo che abbonda nella cacca di pipistrello, e lì, anche se Robert Zimmerman se la cavò, Bob Dylan ci lasciò le penne.
Sembrava ormai il cadavere del folk singer e del blues man, quando ancora mezzo imbottito di itraconazolo agitava le frange spioventi dalla giacca da cow boy, impalato davanti a un Giovanni Palo II più assente che assorto. Lì – rammento – spensi la tv e dissi: “Riposa in pace, Liberace”.