Cygnet, TAS, 9 gen 2013, ore 17:52
La signora che gestisce questo posto, che mi rifiuto di chiamare ostello, non mi piace. E’ viscida. E’ una di quelle persone che ti sorride in faccia, sembra affabile, carina e disponiblie, ma che in realtà si approfitta di te alla prima occasione. Il suo aspetto non aiuta ad ispirare fiducia. La sua pelle è una e coperta di macchie nere sul collo. I suoi capelli sono unti e mal tinti: le punte marroni, le radici bianche sporco. I suoi occhi sono verdi, con la parte vicina alla pupilla nocciola e quando ti guardano ti penetrano dentro come spade. Sembra sempre che stia cercando di studiarti, di scoprire il tuo punto debole per poi, al momento giusto, fregarti. E’ grassa. Mostruosamente grassa. E’ grassa come due persone e questa sua mole si ripercuote sulla sua camminata, la quale è lenta e sempre incerta. Non mi piace, ma le circostanze mi impongono di essere sempre carino con lei. Ed io lo odio profondamente.
Stamattina, arrivati in farm, siamo stati divisi per nazionalità. Qui gli italiani, lì i francesi, là gli asiatici. Curioso come quando si parli di asiatici, la nazionalità non conti più. Non imposrta se si tratta di cinesi, coreani o giapponesi: sono solo asiatici. Per tutti. Questa però è un’altra storia. Una volta divisi siamo stati rimproverati tutti duramente. Il lavoro non andava bene. Bisognava essere più veloci, più precisi, meno foglie staccate. Più robot, insomma. Il farmer ci sgridava come se stesse cacciando delle pecore dentro all’ovile. Mi sentivo umiliato senza nessun motivo. Siamo stai minacciati tutti: se non si migliora, qualcuno andrà a casa. Io ero abbastanza tranquillo. Non sentivo il mio lavoro a rischio. Stavo dando il massimo e, come me, gli altri ragazzi. Siamo andati tra i filari a cuor leggero. Dopo appena due cestini la supervisor è arrivata a controllare. Ha controllato il mio: era perfetto. Le ho chiesto se andava bene e lei mi ha detto di sì, poi mi ha detto di andare al capannone una volta finito il mio cestino. Io e Sylvie. Poi è andata da Carlo e da Michelle e ha fatto la stessa cosa. Perchè? Non capivo. Stavo perdendo tempo, e il tempo, per uno che lavora a cottimo ed è pagato una miseria, è denaro. Arrivati al capannone il capo è arrivato, ha visto in terra due cestini con dentro alcune foglie e ci ha cacciati. Non ho detto licenziati. Ho detto cacciati. Senza troppe parole o spiegazioni. Non andate bene. Troppe foglie per terra. Adesso chiamiamo il pulmino e ve ne andate. Riconsegnate i cartelline e poi verrete pagati venerdì. Tutto qui. Non sono mai stato trattato così. Non so che posto sia questo, ma qui l’umanità non è di casa. Non ci ha nemmeno fatto finire la settimana, il giorno. Nessun preavviso, nessun richiamo. Via! Via col dito puntato verso la porta del capannone. Inutili le proteste. Via! Cacciati per delle foglie con dei cestini perfetti, raccolti per otto dollari l’ora.
Tornati all’ostello abbiamo parlato con la signora. Dopo qualche spiegazione, magari una parola di troppo, ma mai maleducati, è saltato fuori che la colpa era in effetti nostra. Noi, secondo la signora, siamo qui solo per i soldi e quindi per forza il lavoro non è di qualità. La tensione si è alzata. Se si conta che per questa baraccopoli paghiamo, tra tutto, 175 dollari la settimana è naturale cercare almeno di guadagnare il più possibile. Invece no, noi dovremmo lavorare, secondo loro, per meno di 60 dollari al giorno ma fare il lavoro di una macchina. Non è tutto. Anche se siamo stati cacciati dal farmer, tutti noi avevamo firmato un contratto che prevedeva una settimana di preavviso da dare alla signora per poter lasciare il posto senza perdere il bond di 200 dollari. Avendo perso il lavoro nelle ciliegie, la signora ha detto di non poterci più tovare un lavoro come raccoglitori di quei frutti, ma solo per le fragole. 5 dollari per un contenitore grande come due scatole da scarpe. Una cosa improponibile per chiunque. Volevamo allora andarcene, ma il contratto parla chiaro: una settimana di preavviso. Il risultato è che noi possiamo andarcene quando vogliamo, ma dobbiamo comunque pagare per altri due giorni di letto, 50 dollari, per poterne riavere indietro 200. Sono le regole, diceva, valgono per tutti: non vi sembra giusto? Non so come abbiamo fatto a non aggredirla, ma siamo ritornati indietro senza poter fare nulla e senza aver compromesso la situazione in maniera peggiore con le offese che avrebbe meritato.
Sfruttati all’osso, ecco cosa siamo. Tutti. Gli altri ragazzi che lavorano con noi domani non lavorano. Eppure stamattina, tra un urlo ed un altro, il farmer aveva detto che la raccolta era in ritardo. Quindi perchè non lavorano? Persone che pagano anche 225 dollari la settimana riescono a guadagnarne a malapena 64 al giorno. In Australia non è nulla. Mi chiedo cosa pensi questa gente, che situazione abbiano per non poter mandare tutto e tutti al diavole e cercare un’altra farm. Molti rimangono nonostante tutto ed io non me ne capacito. Personalmente, se volessi farmi trattare così e se volessi vivere in queste sistemazioni, mi basterebbe andare in puglia a raccogliere i pomodori coi rumeni a 50 centesimi l’ora. Nei week end potrei comunque tornare a casa a trovare la mia famiglia ed i miei amici. Il livello di sfruttamento raggiunto in Tasmania è tremendo. Se vuoi lavorare devi firmare questi contratti in quasi tutto gli ostelli. Una volta portato al lavoro, la paga è una miseria ed il livello richiesto è quello di una macchina. Se sei licenziato devi comunque dare altri soldi ad altra gente perchè hai firmato quel contratto che ti ha permesso di trovare quel lavoro. Vorrei fosse uno scherzo, ma non lo è.
A questo punto la mia situazione non è rosea. Dopo aver chiamato Bourke ed il governo innumerevoli volte posso dire con sicurezza di avere accumulato 58 giorni di visto a Bourke e 3 qui. Sui 3 giorni tasmani non sono ancora sicuro, devo chiamare. Il risultato è 61, quindi me ne mancano ancora 27. Ventisette giorni. Quattro settimane. Sono poche, ma sono anche tante. Ora come ora non ho idea di dove andare. Vorrei andarmene dalla Tasmania, ma sembra che nel resto dell’Australia non ci sia frutta da raccogliere. In Victoria si vocifera di un’imminente stagione delle mele, ma non ho certezze. Un ragazzo che ho conosciuto a Bowen, e che adesso lavora là, ha postato su Facebook che anche in Victoria le condizione sono pessime. E’ una dura lotta quella che mi aspetta, soprattutto perchè il numero di backpackers che sta cercando lavoro credo superi decisamente la domanda. Bisognerà aspettare, anche se non ho molto tempo. Domani proverò a chiamare in giro, oppure cercheremo un amacchina e andremo farm per farm a vedere come è la situazione. Ho già detto una volta che non sarebbe potuta essere peggio di prima ed ho sbagliato clamorosamente; quindi non lo farò. Dirò soltanto che preferisco ancora stare qui piuttosto che tornare in Italia. Quando questo pilastro crollerà, quando sarò veramente sconfitto, allora forse mollerò, mi farò i conti in tasca e poi farò ritorno. Per ora, nonostante tutto, evviva l’Australia, terra di opportunità, felicità e di spietati sfruttatori.