Ma veniamo al dunque. Siamo a metà primavera del 1720. Il Vicerè ha un incubo: la peste, venuta dall’oriente, è arrivata a Cagliari, si diffonde per tutta l’isola, devastando esseri umani e territori; egli stesso è stato contagiato, le sue membra si stanno disfacendo; si sveglia di soprassalto, si controlla, incredulo di constatare la propria buona salute. Al largo c’è una nave, la Grand Saint-Antoine. Proviene da Beirut, diretta a Marsiglia, con un carico di preziosi tessuti, tra i quali hanno trovato una confortevole sistemazione i batteri della peste orientale. A bordo, si dice, c’è già stata qualche morte sospetta. Il Capitano attende il permesso di effettuare una sosta nel porto, ma il Viceré, suggestionato dall’incubo, invia un emissario con l’ordine di riprendere il largo senza indugio, pena il cannoneggiamento. Funzionari di corte, notabili e semplici popolani rimangono sgomenti di fronte all’atteggiamento del Viceré, che non si fa scrupolo di calpestare le consuetudini di solidarietà ed accoglienza nei confronti di chi va per mare. Il Vicerè diventa un personaggio da barzelletta, dentro e fuori la corte, ma quando giungono le notizie da Marsiglia, le cose cambiano radicalmente.
La Grand Saint-Antoine, dopo aver ottenuto a Livorno quello che non gli era stato concesso a Cagliari, il 25 maggio arriva a Marsiglia. Nel porto francese, abituato da secoli a fronteggiare il pericolo delle epidemie portate dai marinai, è in vigore un rigido iter di prevenzione, consistente in lunghi periodi di quarantena per le navi contaminate e una rete informativa che collega i porti del Mediterraneo per essere aggiornati sulle condizioni sanitarie dei porti di provenienza. Ma dall’oriente non giunge alcuna allerta e a Livorno, nonostante le morti sospette, viene rilasciato un certificato rassicurante. Così, dopo controlli poco meticolosi e un breve periodo di quarantena, anche a causa delle pressioni dell’armatore, equipaggio e merci vengono lasciati liberi di circolare. Ha così inizio l’ultima epidemia di peste nel continente europeo che si diffonde in tutta la Provenza, persistendo per due anni e uccidendo, si stima, 120.000 esseri umani.
La peste, per Artaud, è la metafora stessa del teatro, in quanto porta la corruzione e la malattia al parossismo, per poi offrire un’occasione di rigenerazione. Questo è il motivo principale che giustifica la fascinazione esercitata su di lui da questo aneddoto. Ma non l’unico: la nave, che porta il nome del suo santo omonimo, collega l’oriente mediterraneo, terra d’origine della madre, a Marsiglia, sua città natale. Ma la suggestione più grande, probabilmente, viene da quel Barone che, nei giorni della Grand Saint-Antoine, non era ancora Vicerè: Saint-Remy, come la cittadina in cui Nostradamus esercitava le sua arti di guarigione e di premonizione; la stessa cittadina in cui Van Gogh, il suicidato dalla società, venne ricoverato per un anno dal maggio del 1889 e dipinse alcuni dei suoi più maturi capolavori.