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Calcio e cinema. Il rumeno THE SECOND GAME, il più radicale di tutti i film nel pallone

Creato il 13 giugno 2014 da Luigilocatelli

The Second Game (Al Doilea Joc), un film di Corneliu Porumboiu. Voci di Corneliu Porumboiu e Adrian Porumboiu. Romania 2014. Presentato alla Berlinale 2014 nella sezione Forum.
20144303_1_IMG_FIX_700x700Per 90 minuti e più rivediamo il VHS tremolante di una partita-mito del calcio rumeno, quella che nel dicembre 1988 oppose le due squadre-guida del paese, lo Steaua e la Dinamo. Nevica, il campo è fango e buche, le condizioni impossibili, ma i giocatori non si arrendono. Con il commento del regista e di suo padre Adrian, che di quel match fu l’arbitro. Ne esce un’esperienza visuale tra le più radicali del cinema recente. Voto 8 e mezzo
20144303_2_IMG_FIX_700x700In tempi di World Cup tropicalista vien voglia di pensare a qualche film potabile (ringrazio Andrea Bruni per avermi ricordato questo aggettivo tanto amato e usato da Morando Morandini) sul pallone, o anche nel pallone. Che poi i titoli che vengono subito in mente son sempre i soliti, non moltissimi alla fin fine, non essendo mai scoccato davvero il cortocircuito amoroso tra la sfera, come la chiamano ancora i telecronisti Rai in timore di ripetizione e ridondanza lessicali (peggiorando così le cose con un surplus di accademismo inutile), e quella cosa che chiamiamo cinema. Fuga per la vittoria di John Huston, forse l’unico vero successo del genere. Un qualcos’altro d’autoriale, come il bizzarro Il mio amico Eric di Ken Loach o il doc reverente di Kusturica sul gitano dentro Maradona. Per quanto riguarda il cinema italiano, mi limito a ricordare il molto recente L’arbitro di Paolo Zucca. Rimando chi volesse vedere e sapere qualcosa di più a Seleçao, minirassegna di quattro titoli curata dall’associazione cinefila milanese ceCINEpas e abbinata alle partite trasmesse su maxischermo al Carroponte di Sesto San Giovanni. Io, se dovessi indicare un titolo, e un titolo solo dell’abbinata cinema e calcio, sceglierei questo The Second Game, documentario rumeno di assoluto estremismo autoriale da cui son rimasto folgorato all’ultima Berlinale, lo scorso febbraio, in una proiezione di Forum (la sezione più sperimentale e ardita del festival) alla piccola ma assai cinefila sala Arsenal. Lo so, questo film non arriverà mai in Italia, figurarsi, l’han visto in pochi perfino a Berlino, improbabile che esca in dvd, e anche rovistando tra gli anfratti e le baie più piratesche della rete sarà difficile scovarlo. Spero però a che a qualcuno interessi condividere con me, almeno attraverso la lettura, quella strana cine-esperienza.
39 anni, Corneliu Porumboiu è esponente di quella ondata di cineasti rumeni arrivata dopo quella gloriosa dei Cristian Mungiu (Quattro mesi, tre settimane e due giorni) e dei Cristi Puiu (La morte del signor Lazarescu). Di lui avevo già visto nel concorso del Locarno Film Festival 2013 un film ambizioso, rigoroso e pieno di clin-d’oeils e omaggi antonioniani, When Evening Falls on Bucharest or Metabolism, che, se mi aveva infastidito per il disinteresse verso un qualsiasi storytelling, mi aveva impressionato per il rigore e perfino l’ossessività della forma. Ho ritrovato entrambi, rigore e ossessività, e potenziati, in questo documentario, se così vogliamo chiamarlo, anche se è un qualcosa che travalica i confini del genere e si fa piccolo romanzo familiare e racconto-amarcord, privato e pure collettivo. L’idea pazza di Corneliu Parumboiu è di prendere il VHS, potete immaginare quanto tremolante e logorato, di un incontro mitico del dicembre 1988 del campionato rumeno, e di riguardarselo e riproporcelo tel quel, in tempo reale. Senza saltare un secondo. Senza tagli, smontaggi e rimontaggi. Non un incontro qualsiasi, ma la partita tra le due squadre-guida del paese, sanguinosamente rivali per tradizione, lo Steaua e la Dinamo Bucharest. Con tifoserie opposte e sempre pronte al combattimento, e pure con retroterra e supporter politici diversi. Manca un anno alla rivolta anti Ceausescu, non è nemmeno immaginabile quanto accadrà. I poteri forti del regime continuano a dominare il paese, a pervaderne ogni interstizio, compreso il pallone. Lo Steaua è da sempre il team dell’esercito, ma anche della famiglia del Conducator (il figlio di Ceausescu, Valentin, ne è il leader di fatto, e a salvargli la pelle quando il padre e la madre verranno giustiziati sarà un calciatore della squadra che lo nasconderà e gli darà protezione). La Dinamo invece è la più amata dalla temibile polizia segreta, la Securitate. In quel giorno di dicembre scendono in campo per l’ennesima sfida anche due pezzi di Romania, in un clima da lupi da mettere paura. Nevica, il campo è oltre ogni idea di impraticabilità, fango, buche, strati di neve, erba e zolle ghiacciate, ma si calcia, si tira, ci si scontra, si corre, si scivola, si cade, si danno botte e calci, si suda, si cerca di fare gol. Arbitro di quella partita è stato Adrian Porumboiu, il padre del regista. Corneliu si riguarda con lui il VHS, con lui commenta quel che accadde o non accadde in campo, in un dialogo che è ricordo, rievocazione, minima storia di famiglia che si fa biografia di una nazione attraverso il calcio. Si parla di politica, come no. Ma il padre ci tiene a mantenere il commento sul piano tecnico, sottolineando più volte, e con forza, quella che fu la sua filosfia di arbitraggio, e che è anche una visione della vita, una coerente Weltanschauung. Al figlio che gli chiede come mai non sospese l’incontro viste le impossibili condizioni atmosferiche, papà Adrian lascia intendere che il calcio è il calcio, ha una sua logica e una sua forza, the show must go on, e poi Dio mio che sarà mai un po’ di neve di fronte alla bellezza del pallone e alla necessità ineluttabile di quell’incontro? Papà Adrian non è un arbitro interventista e ossessionato dai falli, lui applica spesso la regola del vantaggio, il più bravo che ha la palla vada avanti, “la palla deve scorrere, il gioco deve essere fluido, non lo devi bloccare con interventi inutili”. Liberismo in versione pallonara, un laissez-faire dove il gioco ha il primato su tutto e dove molto è concesso. Noi, che di quel calcio poco sapevamo e sappiamo, restiamo lo stesso incatenati a quelle immagini tremolanti, corrose, come agonizzanti. Quei calciatori (così fisicamente diversi da quelli di oggi, con corpi meno scolpiti e artificiali, più magri e guizzanti, meno statuari, e capelli più lunghi e selvaggi, e braghe bruttissime) ci sembrano uomini-fantasmi danzanti in una plumbea giornata transilvanica funestata dal maltempo, come in attesa del Dracula che prima o poi spunterà da una qualche parte e li vampirizzerà. La tecnologia delle riprese è primitiva. Eppure, incredibile, era già la fine degli anni Ottanta. Due sole telecamere, una con inquadratura fissa sul campo, l’altra a riprendere gli spalti e gli spettatori nella tormenta quando in campo scoppia qualche baruffa (“ai politic non piaceva mostrare calciatori litigiosi, così durante le inevitabili risse si riprendevano gli spettatori”). Obbligati per quasi due ore a vedere quel rettangolo di campo funestato dalla neve, e reso spettrale dal rantolante VHS, con quel surreale pallone in giallo, cadiamo in una sorta d’ipnosi, o di catatonia, senza troppo renderci conto di come questo film abbia inoculato una sorta di bug nel nostro cervello, di come stia lavorando sulla nostra percezione, il nostro sguardo e le nostre visioni. Di come li stia alterando, di come stia corrodeno la nostra lucidità. Anche nel film presentato a Locarno Porumboiu ricorreva ossessivo alla camera fissa, a inquadrature devitalizzate in tableax vivants. The Second Game è un ulteriore passo nella sua esplorazione di un cinema incantatorio e ipnotico. Non rivelerò come finisce il match, anche se le probabilità che questo film arrivi in qualche modo in Italia sono scarse, e però mai dire mai (avendo visto aggirarsi dalle parti dell’Arsenal, inteso come sala berlinese mica squadra londinese, Enrico Ghezzi, chissà mai che rispunti a Fuori orario). Nel caso vi capitasse, non perdetevelo. Più che un film sul calcio. Uno dei più radicali, e coerenti, cine-esperimenti degli ultimi anni, e se devo pensare a qualcosa di analogo, penso a quel Manakamana visto a Locarno 2013 dove per quasi due ore una camera fissa inquadrava l’abitacolo di una funivia nepalese. L’eterno andare e venire. L’eterno ritorno.


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