Nell’epoca del calcio a tutte le ore, fatto di diritti televisivi e campioni strapagati, cosa spinge migliaia di persone a seguire (rigorosamente sugli spalti) squadre che stentano e soffrono nelle serie minori? Questa domanda da tifoso del Catanzaro, me la sono posta tante volte, visto che continuo imperterrito a seguire la mia squadra nonostante negli ultimi venticinque anni essa mi abbia regalato poche gioie e tanti dolori. La verità è che dal ‘calcio minore’ ho imparato tutto quello che so della morale: vincere non è tutto. Il tutto è esserci, appartenere, la trasferta con gli amici, le avventure, gli aneddoti.
Certo non sorridono i botteghini, i proventi televisivi sono sempre più concentrati in poche mani avide, crollano nell’incuria stadi culto e luoghi della memoria, ma in tutto questo, resiste, contro ogni aspettativa razionale, il senso di attaccamento e appartenenza. Un senso di appartenenza viscerale più vecchio dei nostri anni, che diventa paradosso, quando dal divano di casa tua puoi assistere per poche decine di euro al gota del calcio mondiale.
L’ingresso di grandi sponsor sulla scena del calcio sembra quasi aver spostato i pali delle porte come disse una volta Bearzot, ma per tanti non è così. Per tanti, che ogni settimana si ostinano cocciuti a gremire le gradinate di stadi dimenticati, il calcio resta poesia di resistenza. Ho visitato tanti stadi. In Italia, in Europa, in Sudamerica ma nulla, nulla ha mai generato l’emozione del calcio d’inizio nel ‘mio stadio’. Lo stadio ubicato nel quartiere in cui sono nato.
Una volta un vecchio signore alla Boca, fumando una pipa e sorseggiando il suo mate, mi disse di lasciar perdere chi mi diceva che il calcio era oppio legalizzato per le classi popolari. Il calcio non è per forza giogo o strumento di dominazione; lo è solo per chi si arrende al flusso della massa. Per chi resta fedele alle sue radici, il calcio è libertà di espressione. Libero svago dalle fatiche del lavoro e dalla monotonia quotidiana. Il calcio è arte ed evasione.
La storia del calcio inglese, il più antico e seguito nel mondo, pare dare ragione al vecchio argentino. E’ questo il tema del bel saggio pubblicato da Soccer World, ‘We’re shit and we know we are’ (Trad. ‘Facciamo schifo e lo sappiamo’), in cui due ricercatori provano a spiegare ‘con il senso di appartenenza a un luogo’ il fatto che circa 450 mila inglesi continuino imperterriti a recarsi allo stadio ogni sabato per seguire squadre che militano in terza e quarta divisione (League I and League II).
Il football nato come svago per ricchi e alto-borghesi si tramutò rapidamente nel Regno Unito in uno sport per operai. Nel 1888, la prima lega unica organizzata vedeva ai nastri di partenza solo rappresentanti del Nord e delle Midlands. Accrington, Aston Villa, Blackburn Rovers, Bolton Wanderers, Burnley, Derby County, Everton, Notts County, Preston North End e Stoke FC (la squadra che diede lustro, pur senza mai permettergli di vincere un campionato, al leggendario Sir Stanley Matthews) città che solo a pronunciarle puoi sentire l’odore acre di carbone e scorgere in lontananza il fumo delle ciminiere.
Gli eroi di quella lega erano tutti impegnati a lavorare nelle fabbriche e a parte la domenica per la partita, il loro unico momento di riposo dal lavoro era il mercoledì per gli allenamenti. Come testimonia il nome di una delle squadre della città più working class del Regno, lo Sheffield Wednesday appunto. Oggi che fabbriche a Sheffield e altrove non ce ne sono più, il calcio delle serie minori, resta puro senso di appartenenza. Essere parte, nonostante tutto, di un luogo.
Se la magia del calcio ha ispirato poeti, scrittori e registi, da Gramsci a Pasolini, da Soriano a Galeano, allora forse non può essere tutto attribuibile alla classe cristallina di gente come Pelé, Maradona o Messi. Se il calcio continua ad appassionare, forse la ragione vera è da rintracciare in quella semplicità geniale di coinvolgere chi sta bene e chi sta male.
E allora possiamo ancora sperare che nelle serie minori e nei campetti di periferia la magia del calcio si rinnovi ogni settimana. Una magia che ci permetta di resistere a regole assurde imposte per svuotare gli stadi, una magia che ci permetta di resistere all’idiozia di affamare tutti a vantaggio di quattro o cinque squadre, una magia che ci permetta di resistere alla spettacolarizzazione senza costrutto, necessaria solo a chi si occupa di calcio per mero interesse economico.
E allora anche io mi metto in disparte e resisto, come scrisse qualcuno in nome di un dimenticato mediano di fatica che giocava nel Catanzaro quando io ancora non ero nato e per vedere i goal si aspettava religiosamente Novantesimo minuto: il mio nome è Giorgio Vignando, amo gli stopper rudi e i mediani di fatica, le squadre di provincia e i popoli oppressi, credo che le vittorie della mia squadra siano state impastate di umiltà, abnegazione e volontà, resisto sui gradini degli stadi di periferia e spero che questo presente prima o poi passerà.
di Emanuele Ferraginada: ilfattoquotidiano.it