Nonostante il drastico cambiamento di toni rispetto all’opera precedente, senza rinunciare al suo stile, McDonagh sembra essere a proprio agio nel trattare tematiche come la spiritualità individuale e l’influenza della religione nella cultura occidentale e ad inserirle senza alcuna forzatura in un’impacchettatura solo in apparenza a metà tra noir e dark comedy. Procedendo nell’arco temporale che separa la sequenza d’apertura dall’omicidio annunciato nella stessa, “Calvary” ha i suoi migliori pregi in una scrittura iper-ragionata e lenta nel proprio incedere, e nella fotografia di Larry Smith - “Eyes Wide Shut”; “Bronson”; “Only God Forgives” – che restituisce perfettamente sia le tonalità grigie e Joyceiane dell’ambientazione che il percorso psicologico/esistenziale del protagonista, paragonato, come suggerito dal titolo, alla salita affrontata da Cristo andando verso la propria crocifissione.
Ciò che rende “Calvary” definitivamente un capolavoro, oltre i motivi sopra descritti, nonché l’interpretazione di Brendon Gleeson, è l’abilità del regista nell’indagare circa un linguaggio cinematografico Nuovo - si veda la scena dell’uccisione mantenuta solenne nonostante l’utilizzo del rallenty e del jump cut - eludendo costantemente, in ogni fase, la trappola dell’Ovvio. Antonio Romagnoli