Calvino globale: la “testa rotonda” del numero uno.
Creato il 10 marzo 2015 da Lostilelibero
La tendenza
generale del mondo è quella di fare della mediocrità la potenza dominante.
J. S. Mill
Gli Stati Uniti sono un paese bizzarro,
talmente strampalato che qualsiasi tentativo d’interpretarne l’indole profonda
potrebbe persino risultare stucchevole. Nascono grazie all’eterogenea e
costante immigrazione europea, quella fatta da uomini che spesso in Europa non
trovavano più spazio per esercitare la propria ambigua idea di “libertà”: puritani,
evangelisti, presbiteriani, quaccheri, mormoni, battisti e calvinisti. Questi
nuovi pylgrim, costretti a fuggire
dalle terre natie proprio in virtù di quell’incompatibilità d’ideali e
pratiche, perlopiù religiose, portarono sulla nuova Terra Promessa anzitutto la
devozione a quei comandamenti morali. Gli stessi cardini etici che fecero nascere
e poi sviluppare l’“autentica” e “sacra” idea di libertà che ha fondato, almeno
nei presupposti, l’odierna american way of life, quella che vuole
altruisticamente fare proseliti, evangelizzare, anche attraverso l’uso
“giustificato” della forza militare.
Ne fecero le spese, per primi, gli indiani
nativi, miscredenti ed incivili bruti scientemente sterminati dalla superiore
“razza bianca”, che rinchiuse poi i pochi superstiti rimasti in quegli zoo
allargati che sono ancora oggi le riserve indiane.
Nella loro bislacca visione mondana,
come lo sbiadito remake di un esodo simil-ebraico, erano convinti di essere il
popolo eletto da Dio a cui era stata destinata una nuova Terra promessa
oltreoceano. E forse proprio questa ingiustificata superiorità è oggi tra le
maggiori eredità che ci hanno tramandato quei “padri fondatori”, il vizio
celato della nuova Gerusalemme americana e dell’occidente in generale: tutti
gli “altri” uomini, in virtù di questa autoproclamata superiorità morale,
vengono conseguentemente valutati come persone di serie B, strumenti da
utilizzare alla bisogna per perorare la propria autoreferenzialità. Un concetto
da mondo “liberale” quindi, ma solo per loro! D’accordo con la fede che ha
sempre indicato loro il cammino da seguire, la concezione esistenziale della
vita e del rapporto col prossimo vengono quindi mutuati, in una sorta di escheriano
parallelismo, proprio da quella dottrina religiosa tanto bistrattata nella madrepatria.
E’ il fideistico rapporto col divino che, infatti, determina il comportamento e
le corrette norme morali da applicare alla vita di tutti i giorni. Una visione
dell’uomo totalmente determinista, quella calvinista, preordinata da un copione
già scritto, condita dalla monolitica certezza di essere nel “giusto”, dalla
parte del bene, ove il bene si manifesta anzitutto attraverso il successo
sociale e la ricchezza materiale (tangibili segni del favore di Dio). Da questo punto di vista i poveri non
saranno più solo poveri, ma dannati, incolpevoli rei della loro stessa povertà
(eppure, se si considera la loro estrazione di ceto, questi puritani erano
inizialmente altrettanto “poveri”. Si auto-nobilitano solo successivamente, un
po’ come i tories della terra da cui
provengono: una nobiltà che però non si fonda più sul sangue e sul lignaggio,
ma sulla convinzione di essere il popolo eletto da Dio.
Ed in tal senso le
cariche “morali” si ereditano come i privilegi feudali dell’antica nobiltà
odiata: essere puritani figli di puritani, poi borghesi “benpensanti” figli di
borghesi “benpensanti”… anche essere “eletti” diventa garanzia di appartenenza
ad una classe privilegiata e predestinata!).
I puritani credevano infatti, e
credono tuttora, che solo la grazia divina possa salvarli dall’Inferno, per cui
non sono chiamati, a differenza del cattolico romano, all’obbligo delle
opere, né a quello di fare del bene. Per guadagnarsi il Paradiso basta seguire
passivamente i Comandamenti di quel Dio vendicativo e un po’ splatter
dell’Antico Testamento.
Una religione concreta, quella calvinista, escogitata
da e per mercanti proto-capitalisti, che non sanno tuttavia di essere ancora
tali (lo scopo della vita si riduce semplicemente al tentativo di diventare
ricchi per mostrare la grazia ricevuta in dono da Dio… esibire la propria
ricchezza, magari promuovendo una fondazione per aiutare i poveri e gli
sfortunati – unti del signore che se la tirano! -).
L’astuto padre costituente
e campione di libertà, Thomas Jefferson, tracciò la via di questa presunzione
“da primi della classe”, ovvero il sentiero capitalista che porta
all’arricchimento a scapito di tutti gli altri “non eletti”: “commerciare
con tutte le nazioni, stringere alleanze con nessuna”. Sono nati grazie ad un enorme genocidio di
massa - tanto per sostenere quei valori di libertà e di tolleranza contenuti nella
Costituzione e nel Bill of Rights -, e si sono consolidati a partire da una
sanguinosa carneficina - che però ti spiegano essere avvenuta proprio per
superare lo schiavismo e affratellarsi ancor di più - (per la Guerra di Secessione
morirono quasi 620.000 uomini su una popolazione totale che lambiva le trenta
milioni di persone)… ma a loro questo passato non importa, per quanto gli si
ricordi i “fasti” della loro storia, gli homines a stelle e strisce si
credono comunque i migliori a prescindere. E si credono migliori perché sul
globale scacchiere mondiale il loro stile di vita “occidentale” ha avuto
successo.
A partire da quel calvinismo in odore di “liberismo”, avere successo,
ottenere risultati, essere giudicati dagli altri come migliori, è sinonimo di
bontà. Il successo diventa così un valore riconosciuto e “stimato”. Un po’ come
diceva quella “testa tonda” di Cromwell, che di quei calvinisti migranti fu il “bomber”
in patria: “chi smette di essere migliore smette di essere buono”. E il
culto del risultato a fondamento di ogni moralità ed intenzione è forse la più
gravida tra le lezioni lasciateci in eredità da quella mentalità puritana: la
religione del risultato! Un risultato, peraltro, spesso imperscrutabile, “trascendente”,
piovuto da un’altera e infallibile divinità alla quale ognuno deve inchinarsi
(ma che in fondo sappiamo strizzare l’occhio proprio a noi, solo a noi! Un Dio
a cui, peraltro, mi inchino sempre volentieri, ché alla fine mi dà continuamente
ragione…).
E a furia di convincersi di essere comunque dalla parte della ragione
- buoni, giusti e vincenti a priori -, hanno finito, in una beffarda legge del
contrappasso, per interpretare il ruolo dei de-menti monomaniacali: l’infallibilità
dei fallibili, il successo dei succeduti, i tolleranti intolleranti, i tredici
volte numeri uno, gli innamorati dei reduci del Vietnam, i fuoriusciti perdenti
che hanno il mito del successo, gl’inventori dei grattacieli nel paese degli
spazi finiti, bisognosi di “negri” discriminati per potersi poi commuovere dei propri immensi principi civili calpestati…
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