Ma così non sarà.
Camille morirà in quella struttura nel 1943.
Non ho spoilerato il finale in quanto all'inizio del film compare in una didascalia tutta la storia della protagonista, morte compresa.
Camille Claudel, artista promettente e figura di spicco della scena culturale francese a cavallo del Novecento, è una figura già portata al cinema nel 1988 e allora aveva il volto diafano di Isabelle Adjani.
I due film raccontano però periodi diversi della sua vita: il film di Dumont comincia proprio dove finiva l'altro.
E l'incipit già chiarisce tutto o quasi di quello che vedremo: c'è una scena in cui Camille, che ha il volto segnato dal tempo di Juliette Binoche che in una sorta di narcisismo attoriale al contrario mostra orgogliosamente a favore di camera tutti segni dei suoi anni, viene denudata e viene lavata in una stanza dove ci sono altre degenti sottoposte allo stesso trattamento.
Camille è diversa da loro, addirittura collabora con le infermiere per accompagnare altre pazienti e compie altre piccole commissioni, eppure è uguale perchè la sua psiche ha dei coni d'ombra troppo evidenti per non essere notati. E' una donna in crisi emotiva profonda, che ha paura di essere avvelenata dal compagno di un tempo, Rodin, che qualcuno si impadronisca della sua arte , ormai abbandonata in qualche atelier polveroso di Parigi, chiuso a doppia mandata e proibito agli occhi di tutti.
Ha la consapevolezza di essere prigioniera ma è come svuotata di energia, non riesce a lottare per avere la sua indipendenza che tanto vagheggia, quando ha colloqui col medico della struttura ospedaliera riesce a malapena a farfugliare qualcosa con poco senso.
E' annientata al solo pensiero di essere reclusa in un mondo a parte, assieme a pazienti che hanno smarrito il dono dell'intelletto o che forse non l'hanno mai avuto, compagne di sventura con le quali ha un rapporto ondivago che scivola continuamente tra la repulsione ( che le provoca anche alcune crisi isteriche incontrollabili ) e quel po' di umana comprensione che si è adagiato sul fondo del suo cuore affranto.
E poi c'è il rapporto col fratello, unica (falsa) speranza di uscire da quel carcere prima emotivo che fisico in cui è rinchiusa. In realtà nel colloquio col fratello lei è come se si andasse a schiantare contro un muro di ortodossia cristiana cieca e sorda alle sue esigenze.
Si amano ma sono troppo differenti per stare assieme , anche solo per pochi attimi all'interno della stessa stanza.
Camille Claudel 1915 è essenzialmente questo: un ritratto di una donna sfiancata e delusa all'interno di una cornice che ha i muri candidi di un ospedale per malati psichiatrici, la fredda cronaca dell'inverno del 1915 composto di giornate sempre uguali a se stesse, vissute nel fremito di un' attesa, nella speranza che qualcosa succeda.
E invece no, le giornate di Camille si succedono le une alle altre, con pochi scossoni.
Camille Claudel 1915 a differenza di altri film di Dumont, è perfettamente intellegibile, non necessita di seconde o terze letture e forse questo rappresenta un piccolo passo indietro rispetto ai magmatici film precedenti .
Altra cosa che mi ha lasciato un po' perplesso è stato l'utilizzo ( inconsapevole da parte loro ?) di veri pazienti psichiatrici nei panni delle compagne di manicomio di Camille.
Dumont ha difeso questa scelta nel nome della ricerca del totale realismo.
Il dubbio però permane: anelito a filmare la realtà o provocatoria scelta di facciata?
A parte questi piccoli dubbi, Camille Claudel 1915 è film da vedere: sarà un passo indietro nella carriera di Dumont ma questo piccolo arretramento ha le sue giustificazioni come l'essere ingabbiato dal punto di vista creativo in un genere abbastanza rigido per definizione come il biopic, oppure lavorare con una diva di valore internazionale come la Binoche e non con attori non professionisti, da sempre privilegiati dal regista.
Eppure l'emozione e il dolore riescono a sgorgare lo stesso attraverso i lunghi pianosequenza....
( VOTO : 7,5 / 10 )