Camille Claudel, 1915

Creato il 18 maggio 2014 da Jeanjacques

Ricordo che da 'piccolo' - che per come la penso io, ormai l'essere piccolo è l'avere sedici anni - era una vera spugna. Facevo di tutto ed avanzato pure del tempo. Leggevo, guardavo film a profusione, mi interessavo di ogni minima nozione politica o di quello che accadeva nel mondo e riuscivo addirittura a suonare la chitarra in una band - che è durata poco o nulla, ma poco conta. Tutte cose che sono coincise con l'apice del mio snobismo, dove o si guardavamo solo pellicole d'elite o si era rottinculo fino al midollo. Poi per fortuna ho cambiato atteggiamento, anche se a detta di alcuni sono notevolmente decaduto. Basti pensare che ora come ora mi accontento unicamente di vedere, fra un film cecoslovacco sottotitolato in tedesco e l'altro, pure dei baccanali di CGI che sono l'insulto più totale alla settima arte, perché con l'arrivo dei vent'anni e la mia entrata nel mondo del lavoro ho bisogno di far fluire certe frustrazioni e un'aggressività sempre più imperante attraverso questo prodotti. Ma ogni tanto c'è un ritorno a certo cinema, come in questo caso, perché ai già menzionati sedici anni avevo avuto modo di appassionarmi alle statue di Camille Claudel, artista particolare e dal vissuto molto travagliato come piaceva a me, e quindi lo scoprire questo film è stato un po' una manna. Oltre che un tentativo di excursus mentale in quello che forse è il periodo più confuso dell'esistenza.

Siamo nell'inverno del 1915, quando la Prima Guerra Mondiale è appena iniziata. Vediamo una manciata di giorni di vita della scultrice Camille Claudel, rinchiusa in un ospedale psichiatrico, la cui routine è rotta da una buona novella: a breve l'adorato fratello arriverà a farle visita. La donna spera infatti che lui potrà aiutarla a uscire per sempre da lì.

Non è un film facile, questo. Non lo è per nulla. E ci sarebbero millemila motivi per cui non me la sento di consigliare a tutti questa visione, a cominciare da quelli più venali. Il ritmo. E' di una lentezza sconvolgente, le inquadrature sono statiche e se non siete nel mood giusto rischiate che la palpebra si appesantisca come non mai. Non è un motivo degno per far iniziare una recensione, lo so bene, ma mi rendo conto che alcuni potrebbero soffrire questa particolarità. Ma sono il primo a dire che, anche se in certi punti si fa di tutto per essere il più lenti e 'pesanti' possibile, senza quelle inquadrature particolarmente lunghe e 'sentite' l'ambientazione claustrofobica del manicomio non avrebbe lo stesso effetto. In secundis [si scrive così?] è il periodo di vita della scultrice scelto. Ci si focalizza unicamente su quel tre giorni in manicomio, tutto quello che è successo prima viene riassunto in poche righe a inizio film. La tormentata relazione con Rodin era stata già affrontata in Camille Claudel, film del 1988 di Bruno Nuytten, che prendeva in analisi la narrazione di un vissuto della scultrice più accattivante e, a una prima occhiata, interessante. Questo film infatti gioca sulla sottrazione, caratteristica che mi si dice è tipica dei film di Bruno Dumont, ma essendo questo il suo primo lungometraggio che vedo non mi esprimo in merito, limitandomi a giudicare solo quanto ho visto. Il regista e sceneggiatore non vuole prendere in considerazione l'essere artista della Claudel, bensì il suo essere donna. Prende un essere umano e lo spoglia della sua particolarità, della sua genialità che lo contraddistingue dagli altri e ne mostra le debolezze. Non per nulla il film, dopo le scritte iniziali, inizia con la scena del bagno, vera summa del pensiero appena citato. Ci saranno pochissimi riferimenti all'arte, poche momenti in cui la donne li citerà, e solo uno in cui sarà attiva, ovvero quando cerca di modellare un pezzo di fango trovato per terra, rigettandolo. Perché le persone non sono fatte solo di arte, la gente dentro di sé ha ben altro, questo è quello che io - coi miei limiti, perché è un film abbastanza impegnativo, lo ammetto - ho recepito. A questo punto quindi viene anche lo strano e morboso rapporto col fratello, lo scrittore Paul Cladel, che qui vediamo in preda a una fede ritrovata - la stessa che tre anni prima l'aveva portato a scrivere il dramma L'annuncio a Maria - e che lo mette in forte contrapposizione con la sorella. Perché lui le è molto legato, ma da una parte, il suo essere umano, combattuto fra dovere e volontà, non sa come comportarsi. Ed è a questo che il film sembra voler condurre, all'umanità delle persone, ai nostri limiti umani che ci colgono tutti, artisti compresi. Perché per quanto abbia fatto, per quanto sia stata geniale, la Claudel in quell'ambiente è solo l'ennesima dei pazienti, forse perché la vita, in fin dei conti, non guarda in faccia nessuno. Manco gli artisti - figuratevi i blogger. Sistemi potenti che però, a mio modesto avviso, non arrivano quanto vorrebbero, fiaccati un po' dalle costrizioni del biopic [genere che, a parte per L'ultimo imperatore di Bertolucci, raramente mi ha fatto gridare al miracolo] e da un certo rigore che ne diventa sia pregio che difetto. Ottima però l'interpretazione della Binoche, specie dopo quell'insulto di parte in Godzilla. E il fatto che da noi in Italia sia ancora inedito e che sia visionabile solo sottotitolato, è un ulteriore pregio, perché ci permette di gustare appieno la sua performance.

Va visto perché merita di sicuro, nonostante la difficoltà in certi punti. Ma soprattutto, per (ri)scoprire una delle artiste più interessanti del secolo passato.Voto: ★★★ ½

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