CAMMINARSI DENTRO (349): La nostra piccola morte quotidiana

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Giovedì 9 febbraio 2012

La prima volta che abbiamo sperimentato il venir meno di nostra madre, con il semplice fatto che si sia allontanata da noi, e quando poi sia uscita di casa, o quando, ancora, una lontananza prolungata ce ne abbia fatto sentire la mancanza, è stato come morire: abbiamo sentito che potevamo perderla per sempre; abbiamo temuto per lei. E per noi. Ci siamo sentiti per la prima volta soli.

E’ stato detto autorevolmente che si è trattato dell’ingresso inaugurale della morte nella vita. Perché ‘vita’ significa pienezza, presenza, contatto, calore… ‘Morte’ significa lontananza, assenza, mancanza, abbandono, perdita…

Tuttavia, quello che ci interessa segnalare oggi è la seconda parte del gioco del bambino, che cerca di ‘esorcizzare’ l’assenza della madre simulando la sua scomparsa e la sua apparizione: Fort significa, più o meno, ‘sparisci’; Da significa ‘riappari’. Giustamente, è stato sottolineato da Freud che la parte più impegnativa del gioco è la seconda: si tratta in sostanza di inventare, immaginare, chiamare alla vita qualcosa che non c’è, che non è più o che temporaneamente soltanto ci è stato sottratto.

Una ‘formula’ che ho usato spesso – Chi non ricorda il bene ricevuto non spera – dice la stessa cosa, a proposito della malinconia in cui precipitiamo non appena una persona a noi cara si allontani: torniamo subito a cercarla, per ristabilire un contatto, per verificare che tutto sia come prima, che siamo sempre oggetto del suo amore…

Una ragione del turbamento in cui cade chi si senta abbandonato va ricercata, paradossalmente, nella capacità di ‘ricordare’ il bene ricevuto, cioè nel continuare a credere di essere amato. Bisogna rinunciare a ‘chiedere’.

Prima non capivo perché non ricevessi risposta alla mia domanda, oggi non capisco come potessi credere di poter chiedere. Ma non credevo affatto, chiedevo soltanto. – FRANZ KAFKA, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza, la vera via.

Tutte le volte, allora, che torneremo a fare esperienza della mancanza – anche più volte nel corso di una giornata -, invece di ‘sprofondare’ nella mancanza, orientando lo sguardo verso l’assenza, lamentando la lontananza intervenuta, dovremo dare spazio al più esatto sentire, che consiste nel ‘rievocare’ la realtà dell’altro, il corteo dei giorni felici, i doni, i gesti, gli atti che quella persona ha compiuto a nostro vantaggio…

Quando ci interroghiamo sul sentire adulto, dobbiamo riconoscere che la maturazione del nostro sentire passa attraverso l’esperienza ripetuta della mancanza, che è costitutiva della nostra condizione di uomini, che va vissuta come costitutiva, essenziale: non si tratta di episodi da cui attendersi un esito felice, abbandonandosi all’illusione, o da temere, perché assediati sempre e comunque dal rischio imminente della perdita.
L’oscillazione tra illusione e speranza è ineliminabile: quando ‘ricordiamo’ il bene ricevuto, non temiamo la mancanza; quando, invece, ci sembra di aver perso un bene prezioso, che si sia solo allontanato da noi, non facciamo che ripetere assurdamente un’esperienza di ‘abbandono’ che non ha fondamento nella realtà.
L’illusione è il dispositivo a cui la mente si abbandona sempre, come se fosse incapace di apprendere, anticipando un evento solo probabile: apparentemente, si tratta di un tendere verso beni che sono a portata di mano; in realtà, quello che potrebbe accadere è solo probabile. Essere smentiti dalla realtà è una delle esperienze che facciamo più di frequente, dalla quale però riusciamo ad apprendere male come non cadere ancora vittime di un’illusione.
Ad ogni nuova smentita, facciamo succedere una caduta nella malinconia, come se avessimo perduto un bene che ci era stato promesso. Ma si trattava solo di una delle nostre chimere.