Campagna elettorale U.S.A.

Creato il 12 luglio 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Luca Barana

Nel 2012 pare che la politica estera giochi un ruolo marginale nel determinare chi risiederà alla Casa Bianca per i prossimi quattro anni. Una realtà a cui noi italiani siamo tristemente abituati, ma che appare paradossale nella campagna elettorale presidenziale del Paese ancora oggi al centro delle relazioni internazionali e il cui Presidente svolge il delicato ruolo di commander in chief. Eppure, la conventional wisdom riguardo le elezioni americane sembra essere ampiamente confermata dal confronto fra il Presidente Barack Obama e il candidato repubblicano Mitt Romney: le elezioni sono decise dall’economia.

Al di là del confronto sui temi economici, nell’ultimo mese la campagna elettorale ha vissuto due momenti di primaria importanza, riguardanti però entrambi l’assetto interno degli States: l’annuncio del Presidente di non voler continuare nella politica di ‘deportazione’ dei figli di immigrati clandestini ormai pienamente integrati nella società americana, a conferma della volontà di Obama di imporsi in quanto trend setter della campagna, e la decisione storica della Corte Suprema di riconoscere la costituzionalità di buona parte di quella riforma sanitaria nella cui approvazione proprio Obama ha riversato buona parte del proprio capitale politico nei primi due anni del suo mandato.

Perché occuparsi delle proposte in politica estera da parte dei due contendenti, allora? Innanzitutto perché oltre ai temi decisivi in materia economica e sociale, alcune tematiche forti che riguardano la postura internazionale degli Stati Uniti hanno ottenuto comunque la giusta considerazione sulle tribune politiche americane: i rapporti commerciali con la Cina in particolare, ma anche la risoluzione della guerra in Afghanistan e l’annunciato viaggio in Israele di Romney. Inoltre, gli Stati Uniti d’America giocano ancora oggi un ruolo fondamentale nel plasmare i destini globali con le proprie decisioni. Pur vivendo oggi in un mondo in cui la tendenza al multipolarismo sembra farsi sempre più accentuata, quantomeno in ambito economico, Washington è ancora al centro dell’odierno sistema internazionale, come dimostrano le malcelate speranze europee nel fatto che la ‘locomotiva americana’ con il sostegno della FED faccia ripartire la crescita globale, quando forse la soluzione andrebbe ricercata nel potenziale dei consumatori in Cina. Comprendere, dunque, come Obama e Romney vorranno gestire le prossime sfide internazionali rimane una questione di primaria importanza.

Come spesso accade per i Presidenti uscenti, non c’è miglior manifesto elettorale per Obama delle iniziative assunte durante il suo mandato, soprattutto dal momento che molte delle sue decisioni hanno costituito una rottura rispetto alla screditata linea della precedente Amministrazione Bush. Esse hanno garantito ad Obama un ritorno in termini di prestigio sia all’estero, sia presso ampi settori della società americana, soprattutto quelli più vicini ai liberal. Distanziandosi dall’unilateralismo di Bush, Obama ha caratterizzato la sua presidenza con un approccio di pragmatico engagement, evidente in particolare nei tentativi di negoziare su basi meno conflittuali con l’Iran nei primi mesi del suo mandato. Fra i risultati di questo approccio figura poi il progresso nelle relazioni con la Russia in materia di non proliferazione, dopo il reset delle relazioni russo-americane voluto dallo stesso Obama.

Il risultato su cui però Obama può fare maggiore affidamento presso l’intero elettorato americano è l’uccisione di Osama Bin Laden, un vantaggio non trascurabile a fronte di un pubblico che ha vissuto questo evento come una sorta di liberazione dopo il decennio di insicurezza del dopo 11 settembre. Infine, deve essere considerata una delle decisioni strategiche caratterizzanti il secondo biennio dell’Amministrazione Obama: la gestione del ritiro dall’Afghanistan.

Obama ha dovuto infatti affrontare l’eredità dell’Amministrazione Bush in Iraq e Afghanistan. In entrambi i casi, l’amministrazione democratica ha agito per chiudere nel più breve tempo possibile l’esperienza delle truppe americane all’estero, le cui ripercussioni stavano erodendo l’appoggio dell’elettorato americano alle iniziative internazionali statunitensi. Se il ritiro dall’Iraq appare più lineare, seppur non privo di criticità circa il futuro politico del Paese, e si è concluso nel dicembre 2011, la vicende afghane hanno costretto Obama ad un percorso più tortuoso. Inizialmente, infatti, è stata adottata l’impopolare decisione di aumentare ulteriormente il numero di uomini stanziati in Afghanistan, circa 30.000 unità che avrebbero dovuto sostenere l’ultimo sforzo americano per ridurre l’influenza talebana nel Paese. Si tratta del cosiddetto surge che l’amministrazione considera un grande successo, l’operazione militare che ha permesso al Presidente di annunciare agli americani nel giugno 2011 il graduale ritiro delle truppe da Kabul entro il 2014. Un annuncio che costituisce certamente un asset elettorale rilevante per Obama, a fronte di un’opinione pubblica sfiancata dai costi umani ed economici delle campagne militari dell’ultimo decennio.

La critica di Romney nei confronti della politica afghana dell’amministrazione uscente è però molto dura. Facendosi promotore di un messaggio impopolare presso l’elettorato medio americano, il team elettorale di Romney ha comunque attaccato la decisione di annunciare pubblicamente una tabella di marcia cadenzata del ritiro delle truppe, che indica come si struttureranno le varie fasi (ad esempio, i 30.000 uomini del surge saranno richiamati nel settembre 2012) e la data finale del dicembre 2014. Romney afferma che tale scelta ha dei risvolti strategici deleteri sul campo, dando la possibilità ai talebani di aspettare semplicemente il ritiro dei militari americani per riconquistare il controllo del Paese. Obiettivo di Romney, invece, sarebbe una gestione più accurata delle forze sul teatro afghano, senza scadenze certe, ma nella convinzione che il futuro Presidente “farà di tutto per riportare le truppe americane a casa il prima possibile”.

Rimangono poi forti perplessità circa i rapporti con un attore regionale fondamentale per le sorti dell’Afghanistan: il Pakistan. Anche su questo terreno, Romney attacca Obama per aver destabilizzato le relazioni con un partner così importante per la stabilità della regione. I rapporti bilaterali sono oggi sottoposti a forte tensione. Nel corso del 2011 almeno due scelte avvallate dall’Amministrazione Obama hanno contribuito all’intensificarsi dei contrasti, a partire dall’operazione svoltasi in territorio pakistano, senza averne dato notizia alle autorità di Islamabad, che ha condotto all’uccisione di Bin Laden. Soprattutto pesa l’incidente dell’autunno scorso in cui un drone americano ha colpito per errore un gruppo di 24 soldati pakistani. Un atto che ha portato il Pakistan a negare la disponibilità delle proprie vie di comunicazione per l’approvvigionamento delle truppe in Afghanistan. Solo all’inizio del mese di luglio è stato trovato un compromesso fra i due governi, grazie alle scuse ufficiali del Segretario di Stato Hillary Clinton, in cambio della riapertura per i mezzi americani del confine fra Afghanistan e Pakistan dopo ben sette mesi.

Romney indica nella destabilizzazione dei rapporti con Islamabad un’ importante fonte di debolezza per gli Stati Uniti, ma paradossalmente critica Obama per un approccio troppo cauto. Il fatto che l’amministrazione democratica abbia acconsentito a divenire l’oggetto degli attacchi da parte del governo pakistano dopo gli avvenimenti del 2011 costituisce una grave mancanza, che indicherebbe a partner e avversari regionali come gli Stati Uniti non siano più pienamente coinvolti in una regione coì strategica e volatile allo stesso tempo. La percezione è tutto, dunque. Al contrario, Romney sostiene che il governo americano dispone di importanti leve nei confronti del Pakistan e non dovrebbe esitare nell’utilizzarle. Fra queste figura certamente il progetto TAPI, il gasdotto che dovrebbe unire Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India, parte integrante della New silk road strategy tracciata dalla stessa Amministrazione Obama. In particolare, le richieste statunitensi dovrebbero vertere sulla necessaria interruzione del legame fra le forze di sicurezza pakistane e gli insorti in Afghanistan.

Corollario di tali critiche all’eccessiva cautela dell’Amministrazione Obama è la posizione di Romney riguardo i legami con Israele. Obama viene accusato di aver abbandonato lo storico alleato israeliano cercando in tal modo di riconquistare credito e legittimità agli occhi del mondo arabo. Al contrario, Romney ribadisce con fermezza la propria posizione a sostegno della politica del governo di Gerusalemme, annunciando un viaggio nella capitale israeliana nei mesi estivi per incontrare il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. I rapporti fra lo stesso Netanyahu e Obama hanno invece conosciuto momenti di tensione nel recente passato. Nonostante le rassicurazioni da parte del Presidente americano circa il legame di fedeltà che lega gli Stati Uniti all’alleato israeliano, prima del loro incontro di marzo a Washington i due leader dimostravano opinioni divergenti a proposito di un eventuale attacco nei confronti di Teheran. Una misura mai veramente esclusa dall’establishment di Gerusalemme, ma alquanto inopportuna per Obama. I contrasti riguardavano poi il modo di interpretare la red line, il punto oltre il quale il conflitto sarebbe divenuto inevitabile. È evidente come la politica dei rapporti nel triangolo strategico fra Stati Uniti, Israele e Iran avrà delle fondamentali ricadute anche sulla gestione delle altre crisi centro-asiatiche.

Iraq, Afghanistan, Pakistan e il ruolo di Israele in Medio Oriente sembrano dunque essere ad oggi fra i principali motivi di dibattito circa le future linee di politica estera fra Romney e Obama. Un dibattito che tuttora non sembra coinvolgere eccessivamente l’elettorato americano, tanto che difficilmente si ritrovano dichiarazioni pubbliche significative. Tuttavia, colui che siederà nello Studio Ovale per i prossimi quattro anni dovrà affrontare ingenti responsabilità non solo nel contesto domestico. Su tutte, la crisi della regione AfPak difficilmente sarà risolta entro il termine del primo mandato di Obama. Questioni strategiche ed energetiche richiameranno certamente in loco l’attenzione della potenza americana e dell’uomo chiamato a guidarla.

* Luca Barana è Dottore in Scienze Politiche (Università di Torino)


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