di Andy Grieve, Lauren Lazin
con Andy Summer, Sting, Stewart Copeland
Usa, 2013
genere, documentario
durata, 84'
nickoftime
Di seguito abbiamo pensato di completare la visione del film con un punto di vista tecnico sulla discografia dei Police: la vorremmo intitolare in una maniera che in qualche modo stona un pò con il taglio scanzonato che si solito utiliziamo ma tant'è a volte le eccezioni sono belle e in questo caso riguardano anche il formato a "doppio fondo" che abbiamo utilizzato. Ma non perdete tempo e inziate a leggere la...
Musicologia de The Police
Di rado accade che un'espressione indurita dalla consuetudine come "fenomeno
musicale" risulti esente da quella sfumatura sarcastica che alligna da sempre
al suo interno e che allude, in maniera più o meno esplicita, alla presenza di
limiti espressivi o a lacune tecniche di vario spessore e incidenza: come pure
ad una nemmeno tanto nascosta inclinazione alla corrivita', da intendersi nel
senso della mera ricerca di "un posto al sole" tra i gemelli omozigoti del
gusto-di-massa e della commerciabilità 'illico et immediate'. Tale categoria -
che può essere anche, quindi, a volte, una pigra certezza - poco s'attaglia
comunque ad una formazione come "The Police" (l'articolo, per comodità, di qui
in poi verra' omesso), la quale, sebbene arrampicatasi ai vertici dello "star
system" con tutte le lame a doppio taglio che ciò implica, ha dimostrato, tra
gl'inevitabili alti e bassi di qualunque parabola, di possedere gli strumenti
per sgrezzare prima e consacrare poi la sostanza che giaceva al fondo di
talenti indiscutibili.
A cominciare dalla sezione ritmica impostata da/su Stewart Copeland - ex
Curved Air - batterista in grado di assicurare, al tempo, un 'drumming' tanto
implacabile quanto multiforme (da notare, tra i tanti, il lavoro svolto in
pezzi come "It's alright for you", "Driven to tears", "Message in a bottle",
et.) e decisivo nel trapasso dalle asprezze sintetiche del punk coagulate
attorno all'esordio "Outlandos d'amour" (1978), alle sequenze più elaborate e
imprevedibili che avrebbero costituito la nuova "spina dorsale sonora" del
trio, a cavallo tra rock, new wave, reggae e sfumature caraibiche (atmosfere in
divenire già intuibili, peraltro, sia dal punto di vista formale - si pensi,
per dire, all'inciso proprio di "Can't stand losing you"; alla primissima
versione di "Roxanne", costruita come una 'bossa nova' - sia da quello, diciamo
così, "caratteriale" - Sting che in "So lonely" prefigura il proprio avvenire
di rockstar "destinata" ad una sorta di dorata solitudine: "No surprise, no
mystery/In this theatre that I call my soul/I always play the starring role").
Quindi, Gordon M.Sumner (Sting, per l'appunto), discreto bassista ma
soprattutto titolare di uno splendido falsetto naturale e di una non comune
abilita' compositiva, nel caso quella misteriosa capacita' di creare una
commistione sensata e coinvolgente di accessibilità e raffinatezza;
combinazione che consente di produrre opere (qui musicali) in cui alla
linearità quasi sempre suggestiva della struttura si aggiunge un'immediata
presa emotiva. La lista degli esempi e' lunga ed include non meno di una
dozzina di ritornelli che pressoché chiunque si e' ritrovato a canticchiare
almeno una volta: da "Next to you" a "Roxanne", passando per "Walking on the
moon" e "Bring on the night", arrivando, attraverso "Don't stand so cose to
me", "De do do do, ...", "Invisible sun", a "Wrapped around your finger",
"Every breath you take", "Tea in the Sahara", "Every little thing she does in
magic", e magari a chissà quanti altri...
A chiudere il triangolo, Andy Summers, chitarrista preciso e di una certa
eleganza, bluesman della prima ora, una mezza dozzina di "esperienze
propedeutiche" (tra cui gli "Animals" di Eric Burdon e i Soft Machine come
turnista) all'attivo, come pure autore del testo, "One train later", da cui il
documentario sopra analizzato prende le mosse. Personaggio più sfaccettato di
ciò che le cronache e il suo carattere schivo per quanto intriso di un umorismo
tipicamente 'british' ci hanno restituito, Summers ha, tra le righe di questo
suo percorso a ritroso nel passato recente, messo a fuoco con placida lucidità
la ragione forse primaria che ha permesso ad una realtà musicale sconosciuta -
esattamente ciò che i Police erano sulla scena inglese alla fine degli anni
settanta - di resistere/insistere affinandosi per arrivare ad esprimere
liberamente un personale universo poetico, fino ad imporlo: "Noi", dice
Summers, "a differenza di molti altri, sapevamo suonare". Concetto ribadito
poco più oltre, al momento di proporre a Sting l'alternativa di modulare
"accordi aperti in Mi", cosa che la oramai superstar si limita ad eseguire
senza batter ciglio, a definitiva riprova che il "fenomeno" Police - di
proporzioni enormi e concentrato in neanche un decennio, come da uno degli
stereotipi base del rock - poggiava su radici magari non molto ramificate ma
semplici e, più di ogni altra cosa, solide: basso, chitarra e batteria; voce
sensuale e/o aggressiva; ritmica potente e variata; melodie orecchiabili,
seducenti e non di rado irresistibili. Radici che il tempo ha di certo logorato
ma non reciso del tutto (la band non si e' mai sciolta "ufficialmente") e che
sostengono ancora la visione luminosa, metafora di un'avventura vissuta nel
corpo di una sfolgorante e velocissima meteora, per cui: "Can't see for the
brightness/is staring me blind/God bid yesterday/goodbye..." ("Bring on the
night").
TFK