Cane di paglia (Straw dogs) – Sam Peckinpah, 1971

Creato il 07 gennaio 2015 da Paolo_ottomano @cinemastino

David (Dustin Hoffman), professore di matematica americano, riceve un assegno di ricerca e si trasferisce in Cornovaglia, dove pensa che potrà condurre i suoi studi nella tranquillità della brughiera e lontano dal caos delle metropoli statunitensi. Va a vivere con la sua moglie inglese, Amy (Susan George), che sa bene cosa voglia dire vivere in un paese grande quanto il suo bar più frequentato, dove gli abitanti sono per la maggior parte operai ubriaconi, preti tanto bravi coi giochi di prestigio ma che non brillano per la conoscenza della Bibbia, uomini di legge dal passato ambiguo che può spedirli nella fossa.

Sarebbero solo due forestieri, David e Amy, guardati con sospetto e poco più, se lei non fosse tanto carina, un po’ civetta e molto ambita dai cervelli più piccoli e violenti del villaggio: quegli straw dogs del titolo originale, che meriterebbe un saggio a parte solo per approfondirne l’interpretazione nelle sue sfumature semantiche. Marito e moglie, però, sono un bersaglio troppo facile da molestare: perché litigano più di quanto vorrebbero e perché lui, genio matematico ma scarso conoscitore della (cattiva) natura umana, si mette in casa – come operai – quegli stessi straw dogs che non vedono l’ora di violentare Amy.

Possiamo affermare, allora, che l’origine di tutta la violenza cui assistiamo nella seconda metà del film è nella cecità di David, la quale sopravvive a tutte le richieste d’aiuto di Amy. A nulla servono i tentativi della donna di liberarsi di quegli uomini, che pure aveva contribuito a far entrare in casa sua. Al conflitto principale tra indigeno e straniero si aggiunge quello tra l’uomo e la donna, enfatizzato da tanti particolari che la squadra di Peckinpah cura con molta attenzione. Il montaggio video, in primo luogo: quei brevissimi flashback che riaffiorano nella memoria di Amy, una manciata di fotogrammi, sono più violenti della forza bruta dei due violentatori. Il montaggio audio, poi: i ponti sonori che collegano le urla e i gemiti di piacere di Amy, semi-complice, alla scena in cui David caccia beatamente le anatre, chiedendosi perché mai i cani che lo avevano accompagnato non sono più con lui.

E tutto ciò non è meno violento del sangue che scorre dopo, delle morti che si susseguono come i figli di un coniglio, del silenzio di Amy di fronte all’ingenuità del marito, che forse non immagina quello che è già successo, anche se troppo tardi si accorge di temerlo. Sebbene la crudezza sia spesso esplicita, non è questo il motivo per cui Peckinpah è così apsro da guardare: lo è perché pensa al modo più semplice e apparentemente meno nocivo di incollarci le palpebre alle sopracciglia e farci ingoiare tanta crudeltà. Ma sa che la brutalità è in quello che noi immaginiamo, dopo i viscidi controcampi e piani d’ascolto dei carnefici. E la nostra coda di paglia prende fuoco, insieme agli occhi di quei cani.


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