L’articolo 19/1/2015 di Aldo Randazzo
Parallelamente alla riduzione di spazi della politica abbiamo assistito ad una perdita di sovranità degli Stati, segnatamente in Europa. Precludendo agli Stati europei la possibilità di proprie politiche monetarie e in assenza di istituzioni sovranazionali realmente democratiche, s’è dato spazio ai “centri di potere finanziari dislocati fuori, oltre gli Stati, che degli Stati fanno a meno” (Zagrebelsky) e che ne condizionano le politiche economiche. Al tempo stesso la politica, che era luogo per la scelta dei fini, è divenuta attività esecutiva di decisioni assunte fuori dalle istituzioni rappresentative. Si rende, così, “incomodo” il voto popolare e la democrazia stessa diviene un intralcio.
Oltre alla democrazia all’interno degli Stati nazionali, è lo stesso progetto europeo oggi a rischio. “Chi comanda sull’Europa ha detto: andate al diavolo, la condivisione del debito, gli eurobond, ecc. non si faranno mai” (Canfora). Aver creato una moneta senza uno Stato europeo è una contraddizione che si rivela oggi esiziale. “Il progressivo predominio del potere, dell’influenza tedesca e l’impoverimento degli altri paesi, anche della Francia, potrebbe generare una catastrofe” (Zagrebelsky). I movimenti nazionalistici emergono e si rafforzano, conquistando trasversalmente largo consenso. Se non si rinnova l’idea originaria di Europa – aggiunge Zagrebelsky – quella politica e culturale, sia pure attraverso un disegno federale,“l’impoverimento generale sarà tale per cui il debito pubblico degli Stati, a cominciare dall’Italia, non riuscirà a rinnovarsi nel finanziamento, e sarà una tragedia sociale”.
Tale stato di cose ha aperto in Italia una profonda crisi politica che si scarica sulla Costituzione, sulle istituzioni, sulle procedure. Il tema delle riforme costituzionali, come quello della legge elettorale, sono da anni in discussione senza che si pervenga a conclusione. La questione è “che non c’è nessuna Costituzione buona in teoria che produca buoni effetti se coloro che operano nelle istituzioni sono uomini cattivi, cioè corrotti, che pensano solo a sé medesimi. Viceversa, Costituzioni mediocri, animate da forze politiche buone possono dare risultati accettabili”, afferma Zagrebelsky. E aggiunge: se non c’è un rinnovamento della classe politica, un rilancio della cultura, “se non si elabora un’idea di quella che può essere l’Italia del domani e del futuro, la vita pubblica si riduce alla gestione dell’esistente e alla salvaguardia delle posizioni acquisite, che è per l’appunto il terreno di coltura del nichilismo politico e delle oligarchie chiuse su sé medesime”.
L’ultimo tema in discussione è quello del “populismo” e la sua relazione con la “democrazia”; termini oggi divenuti ambigui. “In origine a rivendicare la democrazia erano gli esclusi dal potere. Oggi quelli che la usano più frequentemente dicendo ‘io ho i voti, ho vinto le elezioni e posso fare quello che voglio’ sono quelli che stanno al vertice della scala sociale” (Zagrebelsky). Anche il termine “populismo” appare ambiguo: “difendere l’articolo 18 è populismo, tagliare le pensioni non è populismo, …”. Secondo Canfora è meglio evitarne l’uso. Tuttavia l’idea che ne sta alla base è definibile. Nel “populismo” il popolo è soggetto passivo. “Le richieste sociali non emergono attraverso libere energie e organizzazioni in progetti politici dal basso, ma è chi sta sopra che provoca risposte di consenso, in modo plebiscitario”. Si ritorna pertanto al problema inizialmente posto: in democrazia, le Costituzioni danno regole e procedure limitando i poteri a garanzia di tutti; nei regimi populisti, le Costituzioni sono strumento in mano a chi detiene il potere, le regole e le procedure divengono ad esso funzionali.