Negli Stati Uniti, quando si capisce che Washington può essere troppo debole per imporre uno schema antiproibizionista (il Presidente Carter ci aveva provato, ma potentissime agenzie come la Drug Enforcement Administration lottano come furie), i movimenti e le associazioni locali decidono di mettere in atto strategie che bypassano il parlamento e si rivolgono direttamente ai cittadini e alla Corte Suprema. È una tecnica che dà i suoi frutti alla fine degli anni Novanta e all’inizio dei Duemila. In Usa referendum propositivi possono essere indetti in ciascuno dei cinquanta Stati e su qualunque tema: nozze gay, eutanasia, etc. Chi vince vince. Passa la sua legge. Anche per la Corte suprema vige un meccanismo analogo: la legalizzazione dell’aborto è stata introdotta così (la storica sentenza del gennaio 1973 sul caso Roe vs. Wade).
In questa partita, c’è un convitato di pietra: la criminalità che guadagna mille miliardi di euro all’anno (metà del PIL italiano) sul business della marijuana proibita, della cocaina, dell’eroina. In Colombia, maggior produttore di coca, i trafficanti hanno corrotto governi per evitare qualsiasi iniziativa antiproibizionista che per loro significherebbe la fine. In Italia, la patria europea delle narcomafie, con la n’drangheta che si spinge in Lombardia e in Germania, le narcolobby agiscono nell’ombra. In Messico, non sono bastati sessantamila morti nelle guerre di droga a convincere un governo in carica a fare qualcosa. Ma hanno convinto ex presidenti di Centro e Sud America a dare vita al più grosso fenomeno di politica della droga degli ultimi dieci anni: un’operazione di grande chiarezza a favore delle legalizzazioni che ha portato queste eminenti personalità ad aderire alla Global Commission, insieme a Kofi Annan, già segretario generale delle Nazioni Unite.
In questo nuovo contesto, in un piccolo Stato, l’Uruguary, nasce un governo finalmente svincolato da lobby varie, sostenuto da scienziati, università e opinione pubblica, e in un anno raggiunge un risultato sensazionale: è la prima nazione al mondo a decidere una vera e propria legalizzazione per la marijuana: produzione, coltivazione, vendita e consumo. Un’agenzia dell’ONU, l’International Narcotic Control Board , diretta da un rappresentante di un Paese sospetto (nei rapporti con criminalità varie), la Russia di Putin, ha provato ad opporsi, ma senza successo. Per mezzo secolo, tutti i proibizionisti hanno strillato che queste cose non si possono fare, che ci sono i trattati Onu, etc. L’Olanda è stata periodicamente rimbrottata per la sua politica trentennale della cannabis libera nei coffee shop, ma non ha ricevuto dalle Nazioni Unite neanche una multa da mille euro. Dunque l’Onu su queste questioni è in parte una tigre di carta.
Negli Usa, tra pochissimo in Oregon e in Alaska si terranno referendum simili a quelli approvati in Colorado e Washington: non sono Stati-chiave ma la prospettiva è che si innesti un meccanismo a catena con molti altri Stati anche importanti pronti a scendere in campo sull’onda dei successi ottenuti e delle buone previsioni nei sondaggi. L’Europa è un po’ ferma, ma non tocca la riduzione del danno, Svizzera in testa, che conferma anche con referendum, la somministrazione di eroina controllata.
In Italia sembra però tutto bloccato al 2006, quando passò la legge Fini-Giovanardi, che ha messo nei guai settecentomila consumatori, compreso il povero Stefano Cucchi. In realtà, dopo che, anche attraverso l’opera del Comitato Scientifico Libertà e Droga, molti parlamentari (Giuliano Pisapia, Luana Zanella, Katia Zanotti, Massimo Villone, …) nei primi mesi del 2006 avevano messo in luce l’incostituzionalita del decreto legge antidroga del governo, il lavoro è proseguito negli studi degli avvocati, nei convegni e nelle aule di tribunale. Così, nel 2013 ben quattro corti fra cui la Cassazione, hanno rimandato ai giudici della Consulta l’ignobile parto di Fini & co. A metà febbraio la camera di consiglio e forse la decisione. E tra pochi giorni, sabato 8 febbraio, è prevista a Roma la manifestazione nazionale – organizzata dai militanti della Million Marijuana March, in coordinamento con tantissime associazioni e centri sociali – a sostegno delle tesi sull’anticostituzionalità, chiedendo quindi la cancellazione dell’attuale normativa.
[ Guido Blumir, sociologo e ricercatore, autore di numerosi saggi sulle droghe e altri temi d'attualità. Per Stampa Alternativa ha curato La Marijuana fa bene Fini fa male (2003) ]