Nel 1996 compivo sei anni, cominciavo le elementari e in Giappone si inventavano mostrini chiamati Pokémon – quella storia di Mew che si poteva catturare in un giardino di numeri e erbetta selvatica è stata una bella trovata, devo ammetterlo.
Fate un giochino.
Scrivete 1996 e leggete su Wikipedia gli eventi più significativi dell’anno. Innanzitutto, sembra che nel 1996 siano caduti mille aerei. Poi, Israele e Palestina si stringono la mano a Sharm el-Sheikh: sappiamo tutti com’è andata a finire. Alle Olimpiadi di Atlanta Michael Johnson fa il record sui 200. I Ramones si ritirano dalle scene (e questo a me frega poco, ma forse non a uno degli scappati di casa di cui vorrei parlarvi tra poco). Viene ucciso Tupac (su, adesso ditemi che non è morto e che l’avete visto coltivare marijuana in una fattoria del Wyoming, bandana in testa e capra belante al seguito). Umberto Bossi ce l’ha più duro che mai. Nasce la pecora Dolly, la piccola lanosa e clonata Dolly. Gibson vince l’oscar per la migliore regia con Braveheart battendo a sorpresa Babe, maialino coraggioso. Musicalmente, è un anno poveruccio; fortuna che a tenere alto il vessillo della buona musica i Backstreet Boys e le Spice Girls fanno uscire i rispettivi album d’esordio.
Ok, ora annoiamoci parlando di libri.
Nel 1996, in Italia, finalmente succede qualcosa. Forse qualcosa di sporco, ma neppure troppo. E’ da tanto che la narrativa italiana annaspa alla ricerca di sé stessa (e probabilmente non si è mai trovata), ma se dobbiamo tornare indietro sino all’ultimo e più convincente fenomeno letterario, si dovrebbero tirare in ballo le simpatiche penne neorealiste.
Neorealismo è proprio una parola stupida.
Bene, sapete cosa succede nel 1996? Escono numerosi libri accomunati da, come dire, una comune voglia di prendere a schiaffi il mondo, questo mondo, quello dei supermercati, delle marche e della pubblicità. Cosa credevate? Che si parlasse del pianeta Terra? No, nessuno prenderebbe a schiaffi i prati, le cascate e le cicale che friniscono. Per i nostri scrittori del 1996, forse, i prati le cascate e le cicale che friniscono neppure esistono. Palazzoni, periferie, autostrade: il loro mondo è enorme eminuscolo al tempo stesso, inscatolato dentro a una città come una sardina sott’olio. E l’olio, s’intende, trasuda dai bordi macchiandovi la coscienza: ‘ché il loro mondo è anche il nostro, siamo tutti coinvolti.
Ok.
Nel 1996 vengono pubblicati, tra gli altri, Occhi sulla graticola di Tiziano Scarpa, Fango di Niccolò Ammaniti, Woobinda di Aldo Nove, Destroy di Isabella Santacroce, Bastogne di Enrico Brizzi; e, ovviamente, la raccolta a cura di Daniele Brolli intitolata Gioventù cannibale.
E’ un titolo significativo.
Giovani sono giovani, questi nuovi scrittori, e la maggior parte di loro si trova a fare i conti con il salto nel vuoto dell’opera prima. Guardate Brizzi: ne viene dal successo clamoroso di Jack Frusciante è uscito dal gruppo e ci riprova con questo Bastogne, crudo e velocissimo. Ha solo 22 anni. La Santacroce ne ha 26, e anche lei ha solo un libro alle spalle, Fluo. Baricco dichiara che in Destroy si intuisce un talento doppio di quello di Brizzi, dimostrando come al solito di non azzeccarne una: si spera l’abbia fatto per beccarne un po’, il vecchio marpione. Più anzianotti sono Nove, Ammaniti e Scarpa, ma siamo sempre attorno alla trentina.
Chiarito che sono giovani, saranno anche cannibali questi nostri ragazzi? In effetti, non penso sia carino indagare nell’intimità dei frigoriferi, ma una cosa è certa: la voracità descrittiva, la velocità delle pagine e delle gesta dei rispettivi protagonisti è qualcosa che arriva diritta allo stomaco. Sfatiamo un mito: ormai è difficile stupirci di qualcosa. Nel cinema, insomma, se ne vedono di belle. Nei libri, quelli italiani, meno e quindi qualche schizzo di sangue di troppo può ancora urtarci, può annodarci gli intestini; ma non intendo questo. Ciò che più colpisce di questi nostri scrittori cannibali è la ripetitività rabbiosa con cui allestiscono sia gli scenari metropolitani che quelli domestici, è il furore con il quale i personaggi si agitano al loro interno come mosche isteriche intrappolate dentro le mani unite di un bambino dispettoso. Insomma, gli autori si rivelano cannibali nel masticare le proprie vite e risputarle su carta ingigantite e paradossali, esagerate e liquide come la pastasciutta sfatta che ti sale su quando ti sdrai a letto dopo una notte brava: e se ti fermi a fissarla, pensi: “Eh sì, la riconosco ancora, ma ora mica la mangerei di nuovo”. L’allegra combriccola del ’96, invece, fa proprio così: spalma sulla tela quel magico intruglio, ne ricava dipinti post-espressionisti – almeno nelle forme più riuscite.
Chi sono i loro maestri? Non è un mistero, i cannibali non lo nascondono. In primis Pier Vittorio Tondelli, che esordisce nel 1980 con Altri libertini, il libro che forse si avvicina maggiormente all’estetica dei suoi futuri pargoletti letterari; De Carlo, se non altro per una questione nostalgico-adolescenziale; il fumetto d’avanguardia degli anni ’70 e ’80; più in generale tutta la cultura pop di quegli stessi anni; e la musica, poi, specialmente quella più rabbiosa o malinconica, leggi punk e new wave, ma con le dovute eccezioni. Tutto è degno di essere fagocitato, reinterpretato in un lavoro di appropriazione che va al passo con i tempi. Lo scrittore non è più al di sopra del mondo da molto, molto tempo: è soltanto un giovane tra i giovani, forse più interessato, forse più triste e annoiato. Potrebbe sembrare che i cannibali non siano che scrittori occasionali, come dire, dei non professionisti: sarebbe ingiusto. Anzi, nel mondo che cambia, fuori dalla realtà accademica delle mummie imborghesite, questi sono i nuovi scrittori e dobbiamo farcene una ragione. Con umiltà i nostri hanno trovato un loro stile, e si vede che ci tengono a quella cosa sporca che è la letteratura. Sotto sotto, tra un joint e l’altro, si intuisce che per loro è una cosa seria, maledettamente seria.
Ma procediamo per gradi.
Se ci soffermiamo un attimo sulla storia delle influenze, basterebbe individuare gli autori delle citazioni che aprono alcuni dei libri del 1996. La Santacroce in Destroy cita Ian Curtis, Billy Corgan e Nietzsche, Ammaniti in Fango tira in ballo Manzoni, gli Almanegretta e Braccio di Ferro, Bastogne di Brizzi si apre con la citazione più azzeccata di tutte: Lasciva est nobis pagina, vita proba (Marziale, Epigrammi I, 4). Come vedete, c’è spazio sia per le rockstar suicide, sia per i filosofi e i poeti birichini. L’esercizio dellacitazione assume la forma di un gioco.
Altra questione: poco sopra ho accennato allo stile dei nostri piccoli amici affamati. Bene, è questo il nodo centrale della vicenda. Bisogna chiarire una cosa: lo scrittore cannibale non esiste, esistono gli scrittori cannibali. Troppo spesso ci si sofferma sulla violenza, sugli schizzi di sangue di merda e bla bla bla che offuscano il candore della pagina bianca. Ok, è lampante che questi scrittori sono legati da qualcosa, da un immaginario comune, da una comune dispensa da cui pescano gli stessi compact, gli identici televisori Grundig, altrimenti nemmeno ne parlerei e mi troverei, dall’alto del mio pompatissimo conto in banca, a sorseggiare stanchi Mojito su una spiaggia bianca dalle parti dell’Asia meridionale. Ciò che mi preme far notare è invece il personalissimo percorso che intraprende ognuno dei nostri amici. E’ qui che si intuisce l’amore cannibale per la letteratura: in una ricerca stilistica evidente e il più delle volte già così matura, già così vicina al baule pieno d’oro sotterrato nel nostro cervello dal corsaro nero chiamato talento. Ora, siamo seri: i Beppe Fenoglio sono morti, e i Moravia, e i Quarantotti Gambini, ma vi racconto questa storia perché di meglio, da allora, non si è riusciti a fare. Gli scrittori del 1996 ce l’hanno messa tutta, e guarda caso è proprio in quegli anni che scrivono le cose migliori. I maestri Tondelli e De Carlo non rimangono che un lieto ricordo adagiato sul comodino: alcuni degli allievi sono decisamente più bravi, e credeteci perché ve lo dico io. Se dovessimo fare il giochino degli alunni più dotati, vi indicherei gli scolari Scarpa, Ammaniti e Brizzi. I primi due sono tra i più vecchiotti, e si vede. Specialmente Scarpa, con Occhi sulla graticola, dimostra di saper scrivere un romanzo sì un po’ auto compiaciuto, ma eccezionale sul piano dell’originalità, dell’umorismo e della cultura. Ammaniti decide invece per la raccolta di racconti, forma in cui i cannibali danno il massimo: Fango ha qualcosa di Bukovski e di alcuni suoi colleghi, ma lui scrive decisamente meglio. Brizzi si guadagna il podio perché a 22 anni ha già raggiunto una scrittura totalmente sua, regalandoci anche più di un lampo di genialità narrativa: se già Jack Frusciante aveva personalità ma rimaneva un po’ fumoso, Bastogne è diretto e concluso e si prova una piacevolezza frivola nel leggerlo. Analizzando invece Gioventù cannibale, sorprende come il racconto migliore di tutti, Giorno di paga in via Ferretto, sia stato scritto da un autore molto meno invischiato nelle lettere rispetto a numerosi suoi colleghi, il prode Paolo Caredda, le cui poche informazioni biografiche a riguardo raccontano del suo amore per la regia televisiva e per la collaborazione con Mtv, Mediaset, TelePiù e chi più ne ha più ne metta. Giorno di paga in via Ferretto rimanda di sbieco a un libro che molto ha da spartire con la filosofia cannibale, un libro uscito nel 1991 che ha suggestionato più di una delle penne dei nostri amici: American Psycho di Ellis. Ma se la storia di Patrick Bateman è volutamente piatta e ripetitiva – che bisogna c’era, tra l’altro, di trascinarla per 400 pagine? – la narrativa cannibale difficilmente fa sbadigliare. Il più grande lascito di Ellis ai suoi amici d’oltreoceano, comunque, non è da rintracciare nella manciata di pagine di violenza gratuita che insaporiscono il libro, bensì in una sorta di blackout psicologico: l’azione, per quanto banale possa essere, è l’unica cosa che conta, e questo tanto è più chiaro quanto più l’azione è assente – avete presente le infinite descrizioni degli arredamenti, dei capi indossati? L’azione al centro di tutto eppure svuotata di significato: basta fare qualcosa.
Gli eroi del 1996 sono invischiati nel presente, eppure già proiettati nel futuro: ferocemente proiettati, come la ragazza sul balcone di Balla. Non hanno tempo per pensare, hanno fretta di agire, e se il passato si affaccia timidamente sul fondo delle loro giovani pupille, il presente si sovrappone ad esso giocando a ‘trova le differenze’.
Bene, è giunto il momento di tirare le somme.
Cosa ci hanno lasciato, questi teneri cannibali? Che fine hanno fatto? Purtroppo, è successa una cosa che disgraziatamente capita a tutti: gli sbarbini sono cresciuti. E crescendo, si sono sentiti in dovere di far evolvere anche la propria scrittura, ‘ché in fondo non si può scrivere per sempre di torcioni bruciati al chiaro di luna, ragazze facili disposte a tutto, scoppi d’intestini, occhi trapanati. Allora leggiamo che ben in due hanno vinto il premio strega, Ammaniti nel 2007 con Come Dio comanda e Scarpa nel 2009 con Stabat Mater, Brizzi nel 1999 intraprende una svolta ambiziosa con Elogio di Oscar Firmian e del suo impeccabile stile, la Santacroce cercatevela su Youtube e giudicate voi… e si potrebbe proseguire a lungo. E’ questo che voglio dirvi, che seppure ambiziosi, questi autori non hanno più il fuoco che li animava nel 1996. Peggio: leggendo questi libri, si intuisce che nello scriverli non si divertono più. Prendiamo Stabat Mater. Bel libro, sì, ed educato, profondo. Ricorda per l’atmosfera, ovvio, Lettere di una novizia di Guido Piovene, mentre per lo stile Zoo della Santacroce. Ma le risate che ti facevi con Occhi sulla graticola! E Elogio di Oscar Firmian? Brizzi è sempre lui, l’idea è interessante… ma si vorrebbe tornare nella Nizza bolognese di Bastogne a sparare colpi in sella a un motorino. E’ un po’ quello che successe a Tondelli: alzando il tiro con Camere separate, l’incanto – per quanto più simile a una stregoneria – si spezza. Ma sapete cos’è peggio? E’ che il grande merito di questa gioventù cannibale fu che produssero un opera dal sapore veramente internazionale. Crescendo, questi scrittori hanno perso quel po’ che li rendeva in qualche modo unici nel panorama della narrativa italiana novecentesca. E allora non rimane che tornare ai Beppe Fenoglio, agli Albertone Moravia, ai Quarantotti Gambini: ‘chè almeno loro non tradiscono mai.
Ma se, tornando a casa da una notte brava, pregate di addormentarvi prima che lo stimolo di correre verso il bagno diventi troppo impellente, ricordatevi di questo: gli eroi del 1996 hanno sempre bevuto un bicchiere più di voi.
Illustrazione di Enrico Mazzone