Capitano della mia anima

Creato il 18 luglio 2015 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Nelson Mandela trascorse i suoi primi diciotto anni di prigionia a Robben Island. Le sue giornate erano divise tra le minuscole celle e l’arido cortile dove spaccava le pietre. Il regime lo aveva condannato a quella vita per sempre. Niente più libertà fino alla libertà suprema. In quella desolata solitudine c’era la poesia di Henley a fargli coraggio. Invictus. Per ventisette lunghi anni Mandela ha continuato a credere che, nonostante tutto, lui era il capitano della sua anima, il padrone del suo destino. Nonostante le mani vuote e impolverate di pietre frantumate, come farina di un impasto inesistente.
Per lottare bisogna amare. C’era la sua Africa là fuori, il suo paese pieno di dolcezze, eternamente spaccato dalle guerre.

C’è questa Africa oggi, qui in Francia. Oggi che è il diciotto luglio e se Mandela fosse stato ancora qui avrebbe compiuto novantasette anni, ci sono questi ragazzi che per la prima volta corrono al Tour de France con una squadra africana e indossano il caschetto arancio, il colore del Mandela Day. E c’è un sogno quasi impossibile. Vincere oggi, prendersi quel traguardo in un giorno che non sarà mai come un altro. Far felice un continente intero.
Mandela diceva che l’educazione è l’arma più potente per cambiare il mondo: la MTN-Qhubeka pedala portando sulle strade questo progetto un po’ speciale di regalare biciclette ai bambini africani per andare a scuola, per ingannare tutti quei chilometri da villaggio a città.
Vincere era il sogno. Anche se questo è il Tour, anche se la strada decide per conto suo e non regala niente, nemmeno in giorni come questi. Anche se di corridori ce ne sono quasi duecento e la tappa la vorrebbero tutti.
Vincere era un sogno che aveva bisogno di un miracolo. Di quelli che a volte succedono. E che vengono raccontati con gli occhi lucidi. Steve Cummings dice di aver sentito che quello era il momento per passare Thibaut Pinot sulla destra e poi fare la volata.
Stevo era nella fuga di giornata, lui e altri diciannove. Avevano quattro minuti. Mancavano ventisette chilometri quando ha cominciato ad inseguire Michal Golas che se ne andava tutto solo. Da lì è stata tutta una corsa di altri. Poi l’ultima ascesa, gli ultimi due chilometri prima del traguardo, forse anche meno. E Stevo che emerge dal nulla, recupera su Bardet e Pinot. Si accoda a loro. Nel caldo torrido sventola il triangolino rosso dell’ultimo chilometro. Cinquecento metri. Non si può più aspettare, la volata è lì. I pronostici si sgretolano. Ci voleva un miracolo per questa vittoria. Uno di quelli che a volte accadono.
Steve Cummings, anni trentaquattro, inglese di nascita e ciclista zingaro dal duemilaecinque, fa sorridere e piangere un continente. Fa piangere il mondo intero. La prima volta di un team africano al Tour de France nel giorno di Madiba.
Nessuno se ne va mai veramente. Soprattutto quelli che hanno lasciato il bene, il coraggio, le motivazioni per cui lottare. Stevo taglia il traguardo e alza la mano, fa segno cinque: cinquemila bambini che quest’anno hanno avuto le loro biciclette. Cinquemila sorrisi. Cinquemila sogni che oggi valgono più di ieri.

Bisogna vincere, perché se ne parli. Questa è una legge che abbiamo malamente scritto noi. L’Africa che sorge in silenzio, Stevo che diventa leggenda d’improvviso dopo gli anni passati a lavorare per gli altri, a tentare le volate che poche volte sono state sue. Mandela che diventa presidente Sudafricano dopo le pietre spaccate e le notti in una cella piccola da impazzire. La gente ti riconosce solo quando vinci. Qualsiasi battaglia, purchè tu la vinca. Quello che invece fa la differenza è per cosa userai quella vittoria. La libertà, le biciclette: sono cose che si assomigliano, a volte sono persino la stessa cosa. E’ un miracolo anche questo: un traguardo che non sia fine a sé stesso, che non sia soltanto celebrazione. No, la linea bianca, questa volta, è così profonda che è quasi un solco nella storia.
Capitano della mia anima.
Stevo sapeva di non essere il migliore. Sapeva che ognuno è padrone del suo destino. Che ogni tanto ci si può affidare a lui, con una protezione speciale. Che certi giorni l’impossibile non esiste.
Imbattuto.
Oggi ha vinto la libertà.