Ieri ho preso un autobus londinese, per l'ennesima, centesima, milionesima volta.
Sono salita, ho messo la mia Oyster card sul lettore, scalato il mio pound e venti centesimi per l'ennesimo viaggio in una Londra un po' grigia, tra raggi di sole che cercavano di farsi strada tra le corse delle nuvole. L'iPod nelle orecchie a volumi esagerati.
Comincio a pensare che più alta è la musica, meno si sentono i pensieri, i respiri, i battiti del cuore e il ticchettio dell'orologio.
Mi sono incamminata verso la scala, verso il secondo piano del bus. Mi sono seduta nel mio posto preferito. Sesta fila a sinistra. Di fronte alla scala.
Ho sentito il rumore delle porte che sbattevano in lontananza. Come se avessero firmato la fine di un qualche cosa, ieri le porte mi sono risuonate in testa per un po', sotto la musica.
Sapevano di cambiamento. Sapevano come chiudo e apro capitoli della mia vita in manciate di secondi.
Il tempo di salire su un autobus, il tempo di far chiudere le porte, il tempo di lasciare la fermata e andare lontano.
Io ho chiuso un capitolo della mia vita esattamente in quel tempo.
E' rimasto li, su quella fermata dell'autobus, mentre io andavo nella direzione opposta, lontano da quello che è stato.
E' rimasto appiccicato a delle foto, a dei luoghi, a delle risate. E' rimasto incollato a una playlist sull' iPod, fatta a caso un giorno perché facendo quel viaggio volevo ascoltare sempre le stesse canzoni.
E' rimasto aggrappato ai drink, alle corse per prendere l'ultima metro, ai baci e a qualche chiamata confusa.
E' incastrato tra una sigaretta e l'altra, tra una parola e l'altra, tra un discorso e un altro.
E' rinchiuso in quei sorrisi che forse erano rubati, ma forse erano anche voluti. Di sicuro immeritati.
E' rimasto che quando l'autobus è partito, per un momento non sono riuscita a respirare.
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