Capitolo uno e tre

Da Bartel
Mi lascio il sapore del caffè sulla lingua ancora un attimo. Devo essere proprio vecchio se mi soffermo cosi tanto sulle piccolissime cose. E poi sospiro troppo. Si sono vecchio amico mio, anche se faccio ancora la mia porca figura al mare, ho solo un po’ di pancetta e un buon tono muscolare, quasi tutti i capelli, vado in bici, corro tre volte alla settimana, mi alzo raramente la notte per pisciare, faccio ancora l’amore con la stessa donna da anni tre o quattro volte al mese e se lei fosse disponibile anche di più. Lo so cosa mi diresti:”Non hai un cazzo da fare e non hai problemi, bella forza!”. Hai ragione, sono la vergogna del genere umano, un pensionato di lusso. Hai ragione amico mio eppure tu ti ricordi dei periodi senza soldi, anzi senza una lira, tredici traslochi in dieci anni? Ti ricordi di quell’impiegato che somigliava ad un hobbit? Non voleva aprirmi il conto corrente perché avevo solo una borsa di studio e la faccenda gli puzzava di truffa: “sa… poi dalle nostre indagini risulta che alcune persone con il suo stesso cognome nella sua città di origine siano protestate” mi aveva detto con il sorrisino di chi ha capito il trucco del prestigiatore di turno. Avrei dovuto alzarmi, strappargli quel foglio di mano con la serie dei miei presunti parenti caduti in disgrazia  e sbattergliela in faccia pronunciando qualche frase storica tipo “Pirla, non sai con chi parli gnomo, piuttosto che mettere i soldi nella tua merdosa banca li spendo a puttane!” ma mi usci solo un “Ah, va bene…grazie lo stesso”, mi alzai, lo salutai con una vigorosa stretta di mano a cui rispose una medusa morta di stenti e amareggiato come una zitella settantenne abbandonata sull’altare e me ne andai rapidamente. Ma Dio è grande, Dio c’è e l’hobbit mi chiamò al cellulare il giorno dopo: “Dottor Torre, mi scusi potrebbe passare da noi nel pomeriggio, ci scusi tanto ma abbiamo riconsiderato la sua posizione ed è stato tutto un equivoco…” Il pomeriggio dopo mi spiegò l’arcano: a cena aveva parlato per caso con sua cognata che  per caso insegna matematica in un liceo cittadino e mentre lo gnomo parlava per caso di lavoro deve aver per caso parlato del mio caso umano. Per caso la cognata era stata ad un mia lezione sul frattale di Mandelbrot e gli insiemi di Julia, una di quelle cose che tu definiresti come una relazione pornografica, e che invece dimostrano la trama che tiene in piedi l’universo. Per caso la cognata gli aveva detto che ero uno molto conosciuto in alcuni ambienti accademici. Quel giorno aprii il conto corrente ed imparai a fare la ruota con la coda. Pago il conto, un saluto e riprendo la bici, c’è più gente per strada, devo assolutamente tornare a casa prima che i bambini si sveglino li porterò al mare. Amo stare con loro, amo la loro totale fiducia in questo nonno onnipotente, amo il modo in cui mi guardano e in cui mi abbracciano.
L’auto elettrica blu marbaltico ha raggiunto la massima velocità permessa dal motore, 70 chilometri, troppo per un centro abitato. Sulla patente della ragazza che guida c’è scritto Maria Elena Suardi, nata a Genova il 22 Aprile 2003. L’auto imbocca senza far rumore  e contromano Via Crespi, ora curva decisamente a destra con un leggero stridore di gomme. Maria Elena Suardi stà male, sta per vomitare. Deve essere colpa di quella roba che ha bevuto, ma tanto casa è a trecento metri, controlla benissimo l’auto nonostante la notte in giro da un locale all’altro. Ha appena accompagnato la sua amica Lucia vicino casa. Ma era Lucia? No, che stupida era Chicca! Ride e sente il conato di vomito salire  e  mentre si porta la mano sinistra alla bocca vede qualcuno in bici tagliarle la strada e sente l’urto sulla carrozzeria in fibra di carbonio, leggerissima come l’uomo che vola oltre il cofano e sparisce da qualche parte li dietro a destra poi il rumore la colpisce insieme al muretto che separa il lungomare dalla spiaggia. Uh, this is Houston. Uh, say again, please? Houston, we have a problem.

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