Era il 1957 e Sidney Lumet disegnava 12 tratti in un unico set, in un'unica stanza, in un unico tempo. E quei personaggi che compaiono in totale per circa 90 minuti sono rimasti nella storia, di volta in volta risorti con facce nuove e accenti diversi. Si è arrivati a conquistare Mikhalkov che ha riproposto il soggetto in "12", remake ambientato nella Russia dei conflitti. E se un film è riuscito ad unire Stati Uniti e Russia, di norma cinematograficamente agli antipodi, è perchè "La parola ai giurati" trascende le epoche, le cinematografie, per certi versi trascende lo stesso cinema, essendo anche un prodotto a basso budget, tre stanze, ma in realtà un'unica fondamentale, la stanza dei giurati. E la bravura del regista e del diretotre della fotografia sta nel muoversi attraverso i personaggi, arrivando, con dei campo-controcampo, e dei fuoricampo al momento giusto, nonchè con un movimento della camera piuttosto composito, a tenere in tensione razionale lo spettatore. Un perfetto legal-drama, forse il suo apogeo massimo. L'assetto teatrale, la componente televisiva (il processo è in genere uno strumento televisivo e mass-mediatico fortissimo), la perizia tecnica e la grandezza cinematografica, ne fanno un capolavoro senza tempo. Ma ciò che conta maggiormente è l'abilità analitica dello sceneggiatore Reginald Rose, che passa in rassegna l'indagine, facendo scattare la macchina probatoria, attraverso l'analisi interiore dei personaggi, le loro competenze, i loro vissuti. Le idee che presentano, le loro obiezioni non sono altro che il riflesso della loro personalità, dei loro limiti e pregiudizi, del loro trascorso. E animano in modo acceso la storia, appassionando. Questi uomini senza nome, numerati nella disposizione attorno ad un tavolo, ci sembrano tante "persone" prima che "personaggi".
Era il 1957 e Sidney Lumet disegnava 12 tratti in un unico set, in un'unica stanza, in un unico tempo. E quei personaggi che compaiono in totale per circa 90 minuti sono rimasti nella storia, di volta in volta risorti con facce nuove e accenti diversi. Si è arrivati a conquistare Mikhalkov che ha riproposto il soggetto in "12", remake ambientato nella Russia dei conflitti. E se un film è riuscito ad unire Stati Uniti e Russia, di norma cinematograficamente agli antipodi, è perchè "La parola ai giurati" trascende le epoche, le cinematografie, per certi versi trascende lo stesso cinema, essendo anche un prodotto a basso budget, tre stanze, ma in realtà un'unica fondamentale, la stanza dei giurati. E la bravura del regista e del diretotre della fotografia sta nel muoversi attraverso i personaggi, arrivando, con dei campo-controcampo, e dei fuoricampo al momento giusto, nonchè con un movimento della camera piuttosto composito, a tenere in tensione razionale lo spettatore. Un perfetto legal-drama, forse il suo apogeo massimo. L'assetto teatrale, la componente televisiva (il processo è in genere uno strumento televisivo e mass-mediatico fortissimo), la perizia tecnica e la grandezza cinematografica, ne fanno un capolavoro senza tempo. Ma ciò che conta maggiormente è l'abilità analitica dello sceneggiatore Reginald Rose, che passa in rassegna l'indagine, facendo scattare la macchina probatoria, attraverso l'analisi interiore dei personaggi, le loro competenze, i loro vissuti. Le idee che presentano, le loro obiezioni non sono altro che il riflesso della loro personalità, dei loro limiti e pregiudizi, del loro trascorso. E animano in modo acceso la storia, appassionando. Questi uomini senza nome, numerati nella disposizione attorno ad un tavolo, ci sembrano tante "persone" prima che "personaggi".
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