C’è qualcosa di straordinariamente pedante in “Manhattan”, classe 1979, del
regista Woody Allen. E’ come un senso di inadeguatezza del nostro attuale
“sentire” rispetto al film (musicato da Gershwin, che non è la colonna sonora delle nostre giornate). Non ci capita spesso di "vedere" in bianco e nero, nemmeno sullo schermo (viviamo nell’era del
colore-pastiche e per di più tale fase era già strutturata con prepotenza all’epoca della realizzazione del film), tantomeno siamo inclini a "vivere"
quelle vite umorali, utopiche, fasulle spiccatamente filmiche. I personaggi di Allen, sospesi tra il reale e l'irreale, sono un pò i "nevrotici" odierni, ma sono soprattuutto dei perfetti esempi di costruzione "psicoanalitica".Il film in questione appare anacronistico, per certi versi. E tutti i film di Allen, fino all'ultimo "Basta che funzioni", sono rielaborazioni di canovacci simili, anacronistici e immersi nell'humus iniziale del regista. Quando cerca di cambiare strada, Allen sbaglia il colpo e arriva alla macchietta di sè stesso (Vicky Cristina Barcelona), tanto che il radicamento delle tematiche va, ormai, di pari passo con la loro vendibilità facile ad usi turistici, soprattutto.
C'è qualcosa di straordinariamente poetico in “Manhattan”, classe 1979, del
regista Woody Allen. Prima di procedere sulla dissertazione, a favore
dell’accusato, pregherei il pubblico che lo detesta
di eludere i pregiudizi sul discorso riguardo la boriosità logorroica del
folletto da sfiorare il rilassamento o addirittura lo sbadiglio. A proposito di musica, Gershwin, in sottofondo al film, può suonare lezioso,
“borghese”, classico, ma, in realtà è anche il più "popolare" dei borghesi, il più "vivo" dei leziosi e il meno "classico" dei classici. Gershwin è pereftto (e lo è stato) per un musical, e quindi, al dì fuori della nostra sensibilità, una scelta ponderata e innovativa per un film "pseudo-esistenziale" di quegli anni. Il ritorno al bianco e nero è facilmente giustificabile.
Nella descrizione di quel luogo da infatuazione, la "Manhattan", dal Museo Guggenheim a
Brodway, fino a The Carlyle 35, cartolina viziata di molti altri
lungometraggi dell’autore, e set di tante pellicole oggigiorno come ieri, si
pone in risalto, come, nonostante la soppressione del colore naturale, essa
splenda, isolotta, in quanto non mero esterno, locus di azione, ma intrinseca
manifestazione dell’azione da cui sgorga il pensiero, in quanto “condizione”
esistenziale del regista. Allen, quando sceglie un luogo si identifica con esso
(si veda “Interiors”), lo vive (Londra e ora Barcellona) come prolungamento
della sua nevrosi. L’unica critica che si può muovere ad Allen è quella di
fare, soprattutto in questa fase della carriera, film che colgano realtà,
critiche, manie,”psicosi” della sua vita. Manhattan, in questo senso, visto il
rapporto tra un’adolescente sincera, il cui viso non ha rughe, e l’over40
occhialuto e l’intellettualismo non fine a sé stesso ma neanche apertura
al pubblico di massa, in relazione allo humor verace ma discreto non sempre
percepibile e all’accettazione della pratica psicanalitica
come unica strada sostenibile (ma gli analisti non si vedono), è Allen. La grandezza del film sta proprio nella capacità di adesione di un mondo collettivo, la città, che diventa espressione di un'angolazione unica, il personaggio-autore. E' un film sincero, e forse per questo, un film estremamente riuscito.