Caravaggio e il suo tempo

Creato il 10 gennaio 2011 da Rita Charbonnier @ritacharbonnier
Tiziana Daga per non solo Mozart

Caravaggio, I bari, Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA


Quando il ventenne Michelangelo Merisi arrivò a Roma, nell’estate o nell’autunno del 1592, Roma si avviava a diventare una capitale moderna e il monumentale teatro della controffensiva controriformista della chiesa romana.
Già gli interventi promossi da Sisto V (1585-90) avevano provveduto ad aprire nuove imponenti vie e a segnalare – rialzando gli antichi obelischi – ai pellegrini i luoghi più belli e più sacri della città che, nei decenni successivi, si sarebbe riempita di moltissimi nuovi edifici, palazzi, chiese e confraternite, finanziati con uno sforzo senza precedenti dalle famiglie del patriziato romano e dei personaggi legati alla curia pontificia.
Appare evidente quindi che tali commissioni rendessero particolarmente allettante e vivace l’ambiente artistico della città, richiamandovi un folto gruppo di artisti di diversa provenienza pronti a contendersi a suon di spada la scena delle maggiori commissioni pubbliche e private. Tra questi quel Giuseppe Cesari, detto il cavalier d’Arpino, l’artista preferito dal neo eletto papa Clemente VIII Aldobrandini, nella cui bottega alla Torretta (Campo Marzio) il nostro inizierà la sua fulminante carriera dipingendo «fiori e frutti», che da subito misero in luce la sua straordinaria abilità nel rappresentare il vero.

Fig. 1

Ma a lanciare definitivamente il giovane Caravaggio sul mercato artistico del tempo sarà soprattutto l’incontro con personaggi colti e potenti quali il cardinale Francesco Maria del Monte (fig.1), il primo che lo “prese a palazzo”, stipendiandolo e che gli procurò, con le tele per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, la sua prima commissione pubblica, e il Marchese Vincenzo Giustiniani, entrambi esponenti di spicco della corrente più illuminata della riforma cattolica.
Per questa élite di raffinati cultori delle arti, della musica e della scienza e per i camerini dei loro sontuosi palazzi il giovane Merisi produrrà raffinati capolavori, sia d’arte sacra che profana, quali I Musici (al Metropolitan di New York), il Suonatore di Liuto dell’Ermitage (fig.2), I Bari di Fort Worth (in apertura) o il Riposo durante la fuga in Egitto della Galleria Pamphilj.

Fig. 2

Tutte opere in cui, pur dominando ancora i colori caldi e chiari di quei maestri veneti sui quali si era formato nel corso dell’apprendistato presso la bottega milanese di Simone Peterzano, è già in atto la sperimentazione da parte dell’artista di quella tecnica pittorica profondamente innovativa che nel ritrarre “dal vero” i suoi modelli – forse avvalendosi anche di specchi e lenti – arriverà a quell’inconfondibile contrasto di luci e di ombre destinato a divenire il marchio distintivo del suo naturalismo.
Questa forte aderenza alla realtà, la salda e corposa struttura pittorica, il gioco di luci che aprono squarci di tenebre e scoprono un’umanità disperatamente alla ricerca di redenzione, nel giro di pochissimi anni faranno di Caravaggio l’artista prediletto di molti altri esponenti di questa ristretta cerchia di colti e raffinati committenti della Roma della fine del ‘500; tra questi il tesoriere del papa Tiberio Cerasi, per il quale eseguirà le tavole e poi le tele di Santa Maria del Popolo, il banchiere genovese Ottavio Costa, i fratelli Mattei, amici e protettori degli oratoriani di S. Filippo Neri.
Parallelamente le sue opere sconvolgeranno e conquisteranno una folta schiera di artisti contemporanei che vedranno in lui l’iniziatore di un nuovo modo di dipingere al naturale, ma anche nell’uomo un pericoloso, sovversivo, concorrente. E così, mentre la sua fama cresce e si susseguono – con alterne vicende – anche le commissioni pubbliche, le cronache giudiziarie del tempo lo vedono coinvolto sempre più frequentemente in risse, aggressioni e denunce, fino a quel tragico 28 maggio 1606 in cui Michelangelo Merisi da Caravaggio ferisce a morte Ranuccio Tomassoni durante un incontro di pallacorda.
Da quel momento il suo destino sarà segnato da una condanna a morte in contumacia e dalla fuga prima a Napoli, poi a Malta e ancora in Sicilia, ospite del pittore Mario Minniti amico e modello del periodo giovanile, fino al tragico epilogo sulla spiaggia di Porto Ercole, il 18 luglio del 1610, dove, in circostanze ancora non del tutto chiarite, la sua esistenza si concluse tragicamente a soli 39 anni.

Fig. 3

Le opere di questi ultimi anni sono segnate da un crescendo sempre più concitato e drammatico delle sue composizioni, a cominciare da quella Cena in Emmaus (ora a Brera) eseguita nei feudi Colonna, prima della definitiva partenza per Napoli. Nella capitale dei viceré spagnoli lascia altri capolavori destinati a fare scuola, quali la Madonna del Rosario (ora a Vienna) e la Flagellazione di Capodimonte (fig.3) per San Domenico Maggiore e la concitata tela con Le sette opere di Misericordia per la cappella del Pio Monte di Pietà. Ovunque vada la sua fama gli procura commissioni importanti e forse le coperture necessarie non solo a continuare il suo lavoro ma anche a ottenere – il 14 luglio del 1608 – il sospirato titolo di Cavaliere dell’Ordine di Malta.
Ma già nell’ottobre successivo, dai documenti risulta evaso dal Forte di Sant’Angelo di Malta dove era stato imprigionato e il 1° dicembre viene espulso perché “putridum e foetidum”. E’ ormai braccato dalle polizie più potenti del tempo – quella papale e quella dell’Ordine di Malta – e, come appare evidente nei “frettolosi” capolavori del periodo siciliano, la paura si fa disperazione, si fa tenebra che incupisce la tavolozza come nel Martirio di Sant’Orsola (fig.4), dipinto solo pochi mesi prima di morire, in cui con lo spettrale pallore della santa colpita dalla freccia l’artista fotografa in un istante tutta la tragicità del destino umano.

Fig. 4

L’anno appena trascorso ha visto ricorrere il quarto centenario della morte di Caravaggio, eppure appare ancora difficile rimanere indifferenti a quanto raccontato e la straordinaria vicenda artistica di Caravaggio appare così intimamente legata alla sua tragica vicenda umana, così spesso colorita dalle fosche tinte della cronaca del tempo, da sembrare fatta apposta per suscitare in noi continuamente riflessioni sul senso dell’arte e dell’esistenza.
Chi era Michelangelo Merisi, l’artista che alle accademie preferiva i bordelli, al bello ideale dei manieristi le popolane e gli umili presi dalla strada e alla fede bigotta nei dogmi della scienza e della religione la volontà di verificare con mano, attraverso l’esperienza diretta della realtà?
Gli studi, soprattutto quelli degli ultimi vent’anni, hanno restituito storicità alla figura di quest’artista, liberandolo dai molti luoghi comuni di una letteratura che già nel ‘600 aveva contribuito alla nascita del mito di Caravaggio pittore maledetto, sorta di eroe romantico, bohemién ante litteram, permettendo non solo di ampliare il corpus delle sue opere, ma di approfondire i motivi della sua arte e di quella “violenza” che lo vede così spesso implicato in fatti di sangue.
Ricostruire le vicende umane e artistiche di questo grande pittore significa inquadrare più da vicino le sue opere nel clima culturale e religioso della Roma tra Cinquecento e Seicento, quando la città, sotto l’egida delle grandi famiglie aristocratiche, sarà trasformata nella monumentale capitale dei fasti della Controriforma e anche le puttane e i poveracci, come santi e martiri, avranno con Caravaggio un loro ruolo da protagonisti.
Articolo di Tiziana Daga, storica dell’arte, tra i fondatori de La Serliana.

Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :