Caravaggio è un artista contemporaneo, la sua pittura si è rivelata definitivamente soltanto allo sguardo del Novecento. Milanese di nascita, girovagò lungo tutto lo stivale. Roma, Napoli, la Sicilia. In ognuno di questi luoghi il suo audace tenebrismo creò proseliti. Non lasciò allievi diretti, bensì - come fosse un profeta - seguaci. I Caravaggeschi. Dà quasi l'idea di una setta. Una congrega di pellegrini estetici.
Insomma Michelangelo Merisi non passò certo inosservato al suo tempo, tant'è vero che in tutta Europa, dalla Spagna all'Olanda, l'eco della sua lezione vibrerà nei pennelli dei principali artisti secenteschi. Tuttavia i successivi due secoli ne rimossero la memoria e l'eredità, relegando al dimenticatoio una delle pagine più intense e rivoluzionarie della pittura occidentale. Capita. Talvolta per la grande arte il tempo matura quando maturano le modalità del vedere di un'intera epoca. L'occhio del Novecento - educato dalla fotografia e dal cinema - acquisirà gli strumenti atti a comprendere pienamente la grafia luminosa del suo stile pittorico. La critica marxista si appresterà addirittura a rintracciare nella dignità dei suoi santi straccioni un sentimento di solidarietà nei confronti del ceto "proletario" del suo tempo.
Caravaggio prendeva dei poveracci e li faceva diventare apostoli, faceva delle puttane che frequentava modelli per le sue Madonne, giunto a Napoli vide probabilmente due scugnizzi giocare per i vicoli e li trasformò negli angeli che giravoltano nella parte alta delle Sette Opere di Misericordia (1607).
Caravaggio faceva largo uso della composizione a mezze figure con taglio ravvicinato, prima di lui alquanto desueta, calando dietro i personaggi una quinta teatrale oscura. A differenza delle composizioni rinascimentali - che permettevano all'occhio dello spettatore di perlustrare in profondità lo spazio illusionisticamente creato applicando le regole della prospettiva - Caravaggio serrava il campo tra le figure e il piano di fondo con un telone neutro. E, alla stregua di un fotografo ante litteram, sparava la luce da una fonte esterna alla scena, sovente laterale. L' Incredulità di San Tommaso (1601) è esemplare sia dell'impianto luministico sia delle soluzioni compositive caravaggesche. Gli apostoli somigliano a dei mendicanti, vestiti di stracci e dalla pelle sudicia rispondono ai canoni pauperisti - il ritorno della Chiesa e dei suoi rappresentanti a una dimensione dimessa e pura - promossi dal cardinale Federico Borromeo. Il brano è tratto dal vangelo di Giovanni. Tommaso non crede alla notizia della resurrezione di Gesù e chiede ai suoi compagni, che già avevano incontrato il maestro, di accompagnarlo da lui. Le iconografie tradizionali si concentravano sull'attimo in cui Tommaso era in procinto di toccare la ferita di Cristo, senza però che il dito la sfiorasse minimamente. Per Caravaggio, evidentemente, non bastava più osservare. In un'ottica galileiana Tommaso doveva affondare l'indice nella piaga, appurare sperimentalmente il supplizio di Cristo.
La luce arriva da sinistra, tornisce i corpi - giacché Caravaggio non utilizzava il disegno preparatorio ma modellava le figure direttamente nel colore - e ne rivela la materia. È luce fisica, plausibile, di un dato momento della giornata. Ma ha profonde implicazioni metafisiche. Si pensi a Paolo di Tarso: "Quando voglio fare del bene, il male è accanto a me". La dialettica tra luce e ombra nelle opere di Caravaggio sembra interpretare questo postulato, ribaltandone la prospettiva. Quando voglio fare del male, il bene è accanto a me. Ovvero, quando le tenebre ci avvolgono, come avvolgono le figure caravaggesche, la luce è comunque lì. Se scegliamo di andarle incontro, essa ci rivela. Si avverte qui l'eco di un principio riaffermato prepotentemente dalla Controriforma: l'ottimismo antropologico.
In un suo brevissimo saggio Claudio Strinati - esimio storico dell'arte e sommo esperto dell'opera del Merisi - si interroga sulle ragioni nascoste del tenebroso linguaggio pittorico inventato dal Merisi. Una questione che si spingerebbe ben oltre le contingenze stilistiche del tempo, affondando le radici non tanto e non solo nell'opera di altri pittori lombardi, quanto soprattutto nell'esperienza di vita oltreché teoretica di Giovanni Paolo Lomazzo. Figura fondamentale per lo sviluppo della pittura lombarda della seconda metà del Cinquecento, Lomazzo - nonostante fosse diventato cieco - perseverò nella sua speculazione teorica continuando a considerarsi, malgrado il deficit visivo, un pittore. Probabilmente fu da lui che Caravaggio apprese la lezione più importante della propria carriera: il pittore è colui che, nel buio, individua ciò che buio non è e lo offre alla visione altrui sotto forma di materia ricreata. In fondo, il lavoro di ogni artista - di ogni grande artista - consiste proprio in questo. Lottare contro il proprio buio.
di Salvatore Setola, all rights reserved