Carità romana

Creato il 31 marzo 2010 da Casarrubea
Donna con bambino e adulto

All’Ordine degli architetti di Budapest, in via Ötpacsirta, nel quartiere dei palazzi di Jozsefváros, si custodisce ancora la copia di una statua piuttosto singolare. Raffigura una giovane donna con un bambino in braccio, nell’intento di allattare un uomo maturo, ridotto in prigionia, con le mani legate all’indietro. La donna gli offre il seno prosperoso e sorregge un bambino già sazio, col dito in bocca, quasi pronto per addormentarsi.

La statua è la copia di un originale realizzata circa due secoli fa e oggi custodita al Museo delle Arti della capitale ungherese. A vederla per la prima volta, si rimane lì per lì perplessi, abituati come siamo alle Madonne che allattano bambini. Per un fatto istintivo la nostra immaginazione corre subito ad una immagine sacra. Ma è evidente e normale che, nel nostro caso, di sacro non c’è nulla. Il visitatore si trova infatti di fronte a un’opera d’arte a metà strada tra la cultura pagana e la storia reale degli uomini. Una vicenda concreta risalente forse all’antica Roma e di fatto presente in tutte quelle realtà geografiche conquistate dall’espansionismo dell’Impero romano in moltissimi Paesi europei fino ai confini del mondo allora conosciuto. Fino alla Pannonia, al Danubio e oltre.

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I Romani conquistarono quella che poi sarebbe diventata Budapest già nel primo secolo dopo Cristo e ancora oggi si possono ammirare i resti dei loro primi insediamenti ad Aquincum, nell’area del terzo distretto, o al Museo Nazionale, nell’ottavo distretto.

Questa statua, dunque, suo malgrado, ci proietta indietro nella storia e ci fa capire molte cose del presente e anche del recente passato. La prima è che in un’Italia di bigottismo cattolico, lo stupore iniziale della scena non è per nulla spiegato, se non dai pochi addetti, in termini scientifici; la seconda è che si è storicamente sottovalutato l’indubbio valore etico e umano della storia dei due protagonisti della scena: una figlia di nome Pero che nutre un padre condannato a morte e incatenato, di nome Cimone, nella cui cella solo lei poteva avere accesso.

E’ una scena pudica e discreta, un atto di amore senza malizia. Un gesto concreto di salvezza laddove tutto è destinato a una fine senza rimedio. Un contrasto, dai forti caratteri intimistici e lirici, tra la forza della vita e la violenza degli uomini, gli istituti carcerari, la pena di morte.

Si tratta infatti di un’opera d’arte molto diffusa sia nel campo della pittura sia anche in quello della scultura. Meglio conosciuta come Caritas romana, ha costituito nei vari secoli oggetto di interesse di artisti e scrittori,  o è stata involontariamente presentata come scena piccante, ma senza riferimento particolare all’opera, da  un letterato, per la verità libertino, come Giovanni Boccaccio, le cui raffigurazioni colorite poco si addicono alla serietà e all’innocenza del tema. Ma il mito è molto più risalente nel tempo di quanto ci possa far pensare l’autore del Decamerone. La storia di Pero e del padre Cimone, messo in galera e condannato a morte per fame, fu raccontata per la prima volta nei Dictorum et factorum memorabilium libri da Valerio Massimo ed ebbe ampia diffusione già nel secolo XVI con Georg Pencz (1500-1550) e poi nei secoli XVII e XVIII. Ispirò molti artisti e pittori europei e tra costoro, Caravaggio, Manetti, Rubens e Bachelier, rimanendo ancora viva nel corso dell’Ottocento.

Letta in chiave moderna, l’opera rischia di perdere il suo valore artistico riducendosi ad essere una mera rappresentazione simbolica della condizione della terza età nella realtà di oggi, come pare di capire se si legge l’ ”approccio psicoterapeutico alla dipendenza dell’anziano” di Alessandra Berti e Patrizia Soligan.

Alcune immagini di Charitas romana sono reperibili ai siti:

carità romana

carità romana 2

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